Il 24 marzo, protagonista dei tre “vertici” di Bruxelles (Nato, G7, Consiglio europeo) è stata senza dubbio la Nato che pareva in letargo da anni e che Donald Trump aveva decretato “inutile” ed Emmanuel Macron aveva accusato di “morte cerebrale”.
Ora la Nato è al centro non solo del confronto con la Federazione Russa in materia di aggressione di Mosca all’Ucraina, ma della strategia politica, non solo militare, dell’Occidente. Per certi aspetti sembra essere tornati a oltre cinquanta anni fa, ai tempi della “Guerra fredda”, quando la Nato era il cardine della difesa occidentale a fronte delle minacce da parte dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss) e rappresentava il punto di forza dell’Occidente. E aveva una chiara guida negli Stati Uniti.
Da allora a oggi, però, il mondo è profondamente cambiato. Non siamo più in una geopolitica e geo-economia essenzialmente bipolare, ma in un mondo multipolare con l’aggiunta della Cina, dell’India e di altri Paesi il cui Pil è notevolmente maggiore di quello della Federazione Russa, il cui reddito nazionale, nonostante le vaste dimensioni del Paese (ben 11 fusi orari) e le enormi riserve minerarie è unicamente il 3% di quello mondiale.
Anche sotto solo il profilo dell’alleanza difensiva Nato il quadro è drasticamente cambiato. Occorre chiedersi se la Nato sarà in grado di operare in questo nuovo contesto se farà il salto di qualità tentato ma non riuscito circa sessanta anni fa: passare da un’alleanza a una “comunità atlantica”. Per “comunità atlantica” si intendeva una condivisione di valori molto più profonda di quella richiesta da un’alleanza militare difensiva: non solo fede nella democrazia e nelle sue regole, ma anche valori culturali, etici, morali. Una “comunità” retta da due pilastri: gli Stati Uniti e l’Europa in via d’integrazione.
Alla fine degli anni Cinquanta venne creato nella capitale emiliana il Bologna Center della Johns Hopkins University (ora School of Advance International Studies – Europa) che ospitava 100 studenti (50 americani e 50 europei – tutti borsisti) che aveva proprio il compito di formare giovani ad avere una “cultura atlantica”; alla fine degli anni Sessanta ero uno di loro e ciò mi portò a passare 15 anni della mia vita a Washington e a sentirmi perfettamente a mio agio in tutte le maggiori città “atlantiche”. Iniziative analoghe vennero prese in altre parti del mondo “atlantico”.
Fummo e restammo, però, in pochi e una vera cultura di una “comunità atlantica” non mise mai radici e non si diffuse. In Francia, ad esempio, si guardava con sospetto la guida implicita che Stati Uniti e Gran Bretagna stavano assumendo nell’alleanza. In Italia, dove c’era il maggior partito comunista del mondo occidentale, si guardava alla Nato come strumento per frenare l’avanzata, ritenuta ineluttabile, del “socialismo reale”; inoltre, parte della classe dirigente adocchiava con grande favore e interesse al bacino inferiore del Mediterraneo e al mondo arabo, ove non a quello che allora veniva chiamato “il terzo mondo” in via di decolonizzazione.
Oggi passare da una “alleanza” a una “comunità” è paradossalmente più semplice e più difficile. Da un lato, la minaccia della Federazione Russa non è mai stata così grave e così spregiudicata; neanche nei momenti più gravi e peggiori della “Guerra fredda”. Dall’altro, gli interessi degli Stati della Nato, soprattutto sotto il profilo economico, si sono diversificati e sono spesso in competizione, ove non in contrapposizione, tra loro.
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