Il G20 di Osaka sembrava aver sancito una tregua nelle guerre commerciali fra Usa e Cina, il Presidente Trump aveva promesso di non imporre nuovi dazi e di allentare i vincoli alle attività di Huawei. Una tregua che molti commentatori vedono già vacillare, ma che probabilmente ha contribuito a creare un clima positivo nei rapporti fra l’Italia e il colosso asiatico, di cui può essere espressione la decisione di Thomas Miao, il Ceo di Huawei Italia, di investire nel nostro paese 3,1 miliardi di dollari, creando mille posti di lavoro, con un effetto moltiplicatore sull’indotto che dovrebbe assicurarne altri duemila. Miao ha tenuto a precisare che le relazioni commerciali con l’Italia sono indipendenti da quelle con gli altri paesi e che il legame che unisce le due economie ha radici secolari e le rende del tutto complementari.



La sensazione è che la firma del memorandum, avvenuta a marzo, inizi a dare i primi frutti e che le reazioni contrastanti che aveva suscitato abbiano mitigato i loro effetti sul dibattito pubblico. A fronte del ritardo accumulato dall’Italia nelle relazioni commerciali con la Cina nei confronti degli altri paesi europei – la Germania, ad esempio, ha un volume d’affari con la Cina cinque volte maggiore rispetto a quello del nostro Paese – si può ipotizzare che la brusca accelerazione impressa dal memorandum abbia spiazzato gran parte degli osservatori.



Indipendentemente dal contesto delle relazioni internazionali, sembra che il memorandum abbia innescato un processo ormai irreversibile e che il rapporto con la Cina sia destinato a consolidarsi. Ciò che però va chiarito è il modo in cui questi rapporti verranno governati. Il dossier Huawei rappresenta un caso paradigmatico e che può fungere da modello per le prossime occasioni di business. I rischi sono rappresentati da fusioni o acquisizioni predatorie di imprese di importanza strategica per la nostra economia nazionale, mentre gli investimenti Huawei finanziano centri di ricerca e sviluppo che possono dotare il tessuto industriale di nuove capacità produttive di tipo greenfield che, cioè, creano ex novo processi di accumulazione e occupazione.



In quest’ottica gli investimenti in Italia hanno una valenza diversa rispetto all’acquisizione della Kuka robotics, considerato il perno del processo di automatizzazione dell’industria tedesca. L’alto valore strategico della tecnologia 5G, il cui sviluppo si riverbera su tutti i campi della quarta rivoluzione industriale e su quelli più “sensibili” delle future forme di guerra asimmetrica come quelle del cyber warfare, implica per il Governo la necessità di mantenere il controllo di asset principali. Non è, quindi, un caso che Zte abbia affiancato Huawei nella polemica nata dalla possibilità del Governo italiano di esercitare il Golden Power sulle acquisizioni da imprese al di fuori dell’Unione europea. Questioni di importanza cruciale che impongono una seria riflessione sulla questione più importante del rapporto fra Italia e Cina, ovvero quella degli investimenti.

La prospettiva finora privilegiata era quella relativa alle esportazioni cinesi, al modo in cui il colosso asiatico avrebbe riversato sui mercati europei la sua sovraccapacità produttiva, di cui la Nuova via della Seta è il vettore principale. In realtà la Nuova via della Seta è soprattutto figlia della proiezione geopolitica della volontà cinese di essere protagonista di questa nuova fase delle relazioni internazionali che si concretizza parallelamente a un’epocale trasformazione dell’economia cinese. La sensazione è che le tensioni politiche di matrice interna dei diversi soggetti in campo finiscano per far passare in secondo piano la questione geo-economica. Il colosso asiatico si muove su due direttrici che sono i due aspetti della stessa strategia di lungo periodo. Il primo è quello che si identifica nel piano Made in Cina 2025, il secondo nella volontà cinese di divenire un’economia basata sull’autosufficienza nazionale. Non è un caso che in una recente intervista il Ceo di Huawei abbia dichiarato di essere già in possesso di un “piano b” per rendere la sua impresa del tutto autonoma dalla componentistica prodotta negli Usa.

In puro stile cinese, la ristrutturazione dell’industria in senso tecnologico è una strategia in cui coesistono sia gli aspetti difensivi che aggressivi. La Cina ha un obiettivo primario, che consiste nel mettersi a riparo dall’incertezza politica e finanziaria di questa fase, di cui il crollo degli investimenti Cina in Usa e il rischio di un’escalation nelle guerre commerciali sono l’aspetto più macroscopico. In un contesto di incertezza è la Cina che nel breve periodo rischia di più, e per rafforzarsi punta a una strategia che la renda completamente autonoma dal rapporto prima di dipendenza e poi di concorrenza con l’economia americana.

La Cina, quindi, punta all’autosufficienza nazionale in senso keynesiano, cosa che implica la capacità di produrre internamente tutto ciò che è possibile produrre, tendenza rafforzata dal rischio che comportano le guerre commerciali, perché la Cina punta ad avere le capacità che le permettano di produrre ciò che non si può più importare. Un obiettivo che in questa fase non può essere raggiunto senza raccogliere la sfida della Quarta rivoluzione industriale. La visione di un’economia export lead che inonda i mercati concorrenti di prodotti a scarso valore aggiunto, è ormai superata e apparteneva a una fase di pura accumulazione pianificata dall’alto.

La Cina attuale è un Paese in cui i salari crescono in modo consistente e la quota delle esportazioni diminuisce in modo significativo ogni anno, dati confermati dal Fmi che ha registrato il quasi azzeramento del saldo delle partite correnti, che era del 10% nel 2007, mentre è solo dello 0,4% nel 2019. È il mercato interno la vera frontiera dell’economia cinese, orizzonte che ha sia una valenza economica che sociale. La generazione di piazza Tienanmen ha pragmaticamente scambiato la libertà politica con la concreta possibilità di un crescente benessere e la dirigenza cinese sa bene che per rimanere in sella deve garantire questo sviluppo sostenuto.

Una generazione che sta invecchiando e che non ha fatto molti figli, cosa che implica la diminuzione della forza lavoro disponibile e quindi la necessità di robotizzare il processo produttivo. Considerare questi aspetti è utile per decostruire i pregiudizi, alimentati da stereotipi e da legittime preoccupazioni che hanno accompagnato la firma del memorandum di marzo. Se risultava comprensibile avere timore delle esportazioni cinesi, magari tacendo il peso di quelle tedesche che ha raggiunto il 7,3% del Pil, adesso non si può non considerare il fatto che la Cina tenda “naturalmente” all’espansione del mercato interno e all’equilibrio nello scambio estero. Una tendenza che unita al costante apprezzamento dello yuan ci fa pensare che molto probabilmente l’economia cinese, in questa fase di incertezza, stia fungendo da unico vero stabilizzatore dell’economia internazionale.

Se la Cina continuerà ad aprire il suo mercato agli esportatori e agli investitori esteri, avremo un’ulteriore conferma di questa funzione positiva.