Trent’anni fa lo storico inglese Eric Hobsbawm, lucido cronista del “Secolo breve”, scelse Arsène Wenger, allenatore dell’Arsenal, quale esempio della globalizzazione: lui, francese di nascita, personaggio chiave della Premier League, profeta di un football oltre le tradizioni locali, dotato del carisma sufficiente per attrarre nel calcio inglese i capitali di americani e russi impegnati a sfruttare i talenti raccolti un po’ a ogni latitudine. Trent’anni, proprio nei giorni in cui Larry Fink, il gestore più potente del pianeta alla guida di BlackRock, si spinge a dire che la globalizzazione, così come l’abbiamo vissuta negli ultimi trent’anni, è finita.
“L’invasione russa dell’Ucraina – ha scritto – ha posto fine all’epoca che abbiamo vissuto”. E la conferma, ironia della storia, arriva ancora una volta dal mondo del soccer, il gioco più diffuso e popolare del pianeta, fonte di gioie e, come scopriamo in questi giorni noi italiani, di grandi amarezze sportive. Il protagonista stavolta è Roman Abramovich, ricchissimo oligarca russo noto ai più come proprietario del Chelsea, la squadra londinese che detiene la Champions League. Il Governo inglese, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha congelato per effetto delle sanzioni la proprietà del club che nel frattempo Abramovich aveva tentato di affidare a un trust. Ma si è trattato di un sequestro breve: il Financial Times ci informa che un pool di primari investitori Usa, grandi investitori nel baseball e nel basket, stanno per rilevare il controllo del club per tre miliardi di sterline grazie ai buoni uffici dei conservatori inglesi che hanno rifiutato invece le avances di Saudi Media, il braccio sportivo dell’Arabia Saudita ansiosa di emulare le gesta del Qatar.
La politica, insomma, ha preso il controllo di uno dei simboli dello spettacolo sportivo globale, affidandolo al controllo del business americano, A tingere ancor di più di giallo la vicenda interviene un articolo di un altro giornale di grande prestigio: il Wall Street Journal di Rupert Murdoch sostiene che il presidente dell’Ucraina, Zelensky in persona, è intervenuto presso il presidente Biden per evitare il sequestro in Usa dei beni di Abramovich che, sembra, sta tentando una mediazione di pace tra Kiev e il Cremlino. C’è da chiedersi, a questo punto, se la trattativa riguarda anche la cessione, magari a termine, del club così come le sorti del gigantesco yacht che il miliardario ha fatto in tempo a posteggiare in Turchia, al riparo dalle sanzioni. Insomma, una trama tra fantafinanza, spy story e fantapolitica che prima o poi finirà in un film.
Nel frattempo, però, la vicenda segna simbolicamente l’avvio del tramonto della stagione dello sport quale spettacolo globale, al di là delle appartenenze e delle bandiere nazionali. Quasi un simbolo della fine della “stagione Wenger”. Non solo nel calcio, ancora una volta metafora di partite più importanti, se non più serie.
Come ha scritto Fink, la fine della globalizzazione è desinata a provocare “il disaccoppiamento dall’economia globale”. Le aziende e i governi di tutto il mondo saranno portati “a rivalutare le loro dipendenze e a rinazionalizzare le loro impronte di produzione e assemblaggio”. La guerra, insomma, rimodellerà l’economia mondiale e farà salire ulteriormente l’inflazione spingendo le aziende a fare marcia indietro rispetto alle catene di approvvigionamento globali. Le conseguenze? Calerà l’efficienza del sistema perché il criterio del minor costo cederà spazio ad altre considerazioni, specie la sicurezza e l’indipendenza dagli altri, visti più come potenziali nemici che partner. Una generazione abituata a pensare solo in termini di convenienza economica delle scelte di business dovrà rivedere i criteri alla luce della geopolitica: guai a dipendere ancora dall’energia o dai chips altrui, anche se costa assai di meno rifornirsi sul mercato piuttosto che affidarsi a una semi-autarchia.
È possibile che questi foschi pensieri possano un domani svanire nel caso di un happy end del conflitto di cui non si vede per ora traccia. Ma è più probabile che questo conflitto segni solo una tappa di una sfida geopolitica in cui è in gioco la leadership tra Occidente e Oriente (a trazione cinese) da combattere senza degenerare in una guerra guerreggiata a tutto campo dalle conseguenze fatali per tutti.
Inutile pensare che l’Italia possa tenersi fuori o scherzare impunemente con il fuoco come ha fatto nei confronti di Putin, che s’arrabbia con noi più che con altri perché nel Bel Paese ha elargito per anni mance a piene mani. Basti, tra le tante considerazioni possibili, valutare il nuovo ruolo della Germania, il principale nostro partner commerciale e politico, che ha annunciato il prossimo riarmo a tappe accelerate.
Non ci vuol molto a capire che la trasformazione dell’apparato industriale e della tecnologia tedesca influirà comunque in maniera rilevante sulla struttura economica del Paese, un processo che possiamo guidare o subire, a seconda delle nostre scelte.
Oggi, più che mai, il mondo cambia in fretta. Spesso in peggio, come ci ammonisce l’amara lezione patita dal football no global all’italiana.
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