Nelle ultime settimane lo “chip shortage”, l’offerta limitata e inferiore alla domanda di chip, ha costretto molte società, in particolare quelle del settore automobilistico, a sospendere la produzione. Senza chip l’elenco di beni che non possono essere prodotti è sterminato. Sul “caso” si sono esercitati in molti per provare a spiegare le cause di un fenomeno che sta rallentando la ripresa globale. La spiegazione “ufficiale” è che i produttori di chip, dopo aver visto un crollo degli ordini nel 2020, non sono stati pronti a aumentare la produzione per soddisfare la ripresa; su questa spiegazione generale si innestano motivazioni più specifiche secondo cui la competizione derivante dall’esplosione della domanda per prodotti per lo “smart working” ha creato concorrenza ai settori più tradizionali. Sinceramente, seppur ragioni plausibili, è difficile spiegare quello che sta accadendo solo alla luce di questi fenomeni. Per questo si è ipotizzato che la mancanza di chip sia una scusa, magari “esagerata”, per fermare le produzioni di beni per cui a oggi non si vede domanda: per esempio le automobili.
C’è un’altra possibile ragione che forse vale la pena indagare. Il principale, di gran lunga, produttore al mondo di chip è Taiwan e a sua volta è Taiwan Semiconductor a rifornire l’industria globale di chip di alto livello. Creare nuova capacità, anche per Stati ricchi e disposti a investire, è estremamente complicato perché gli investimenti sono colossali, i tempi molto lunghi e bisogna “imbastire” una catena di fornitura complicata. In un orizzonte di medio periodo, diciamo almeno cinque anni, le fabbriche che producono chip rimarranno quelle di adesso. La Cina vorrebbe ma si deve scontrare con sanzioni che impediscono la fornitura di componenti chiave oltre a tempi molto lunghi. Taiwan ha una presa molto forte sul mercato dei chip globali e per molti anni non dovrà temere la competizione.
Sappiamo da fonte affidabile, Reuters, che a fine gennaio gli Stati Uniti hanno ringraziato Taiwan per l’aiuto ricevuto per risolvere la crisi dei chip del settore automobilistico. Sappiamo da altre fonti che anche la Germania si è fatta avanti offrendo “vaccini”. Mentre però i clienti americani hanno risolto i problemi gli altri, sia quelli europei, in particolare tedeschi, sia quelli cinesi rimangono indietro nella coda.
C’è uno shortage di chip che impone alle aziende di lavorare a singhiozzo, ma gli Stati Uniti hanno risolto i loro problemi. Il quadro che emerge è che Taiwan sta usando il proprio dominio nel settore in chiave “politica” in una fase in cui le tensioni con la Cina aumentano. L’Unione europea e la Germania non sono particolarmente contente del trattamento e pensano di essere vittima di una guerra commerciale ed economica che seppur non strombazzata, come quando l’inquilino alla Casa Bianca si chiamava Trump, è realissima. Nel caso specifico subiscono la “punizione” di un avvicinamento a Pechino che diventa più sgradito ogni giorno che passa.
Il comportamento di Taiwan non sarebbe spiegabile in chiave economica. Da un punto di vista meramente economico si dovrebbero vendere il numero più alto di prodotti per massimizzare il profitto e comunque escludere a priori o trattare male alcuni clienti è sempre sconsigliabile. Abituati a uno scenario geopolitico “stabile” il rischio di dimenticarsi che possano esserci altre ragioni è forte. Per Taiwan la priorità è quella di mantenere l’indipendenza e, in questo senso, l’unico attore in grado di offrire una protezione contro le evoluzioni più spiacevoli sono gli Stati Uniti; soprattutto se questi hanno l’interesse strategico, per ragioni geopolitiche, a ostacolare l’economia cinese e magari a punire chi, come per esempio l’Unione europea, sta troppo vicino al “nemico”. L’Amministrazione Biden è “anti-cinese” come e forse persino più di quella precedente.
Le leve dell’Unione europea in questo scenario sono limitate per non dire nulle perché si scontrano con una fragilità geopolitica che non verrà risolta nel medio termine. L’assenza di una politica estera comune è palese così come quella di un esercito; i fronti aperti e le diversità di vedute tra Paesi membri, in particolare Francia e Germania, sono incolmabili se non in un orizzonte temporale incompatibile con la velocità con cui i fronti aperti si potrebbe evolvere.
Se la crisi dei “chip” nasconde motivazioni geopolitiche nei prossimi mesi dovremmo assistere ad altri episodi e le reazioni potrebbe essere veementi perché la scarsità colpisce al cuore i sistemi economici e alcuni settori chiave. La crisi, se esasperata, va talmente al cuore dei sistemi economici che potrebbe presto diventare una questione di sicurezza nazionale. Se questo è il caso chi provasse a spiegare la crisi all’interno di un quadro solamente economico rischierebbe di accorgersi di quello che succede troppo tardi. Se invece questa tesi è priva di fondamento, allora si dovrebbe arrivare a una normalizzazione nel breve, anche se il rischio rimarrebbe presente per molti anni perché il settore non è in grado di svincolarsi dalle fabbriche di Taiwan nel breve termine.
L’Unione europea, per inciso, per risolvere i suoi problemi dovrebbe scegliere chiaramente uno dei due contendenti. La neutralità in una fase di inasprimento delle tensioni sarebbe molto simile a una scelta.
—- —- —- —-
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.