Il cambio di rotta è stato brusco. All’ottimismo profuso a piene mani dalle Autorità monetarie nel corso del 2021 sulle prospettive di una ripresa dell’economia internazionale conseguente al pieno ripristino delle catene di fornitura delle materie prime e delle merci nella fase post-pandemica, è subentrata la presa d’atto dell’esaurimento del ciclo di espansione fondato sull’apertura dei mercati su scala globale che ha consentito di triplicare il valore degli interscambi economici e del Pil mondiale nel corso degli anni duemila. L’esigenza di riposizionare le strategie economiche da parte dei Paesi sviluppati del fronte occidentale nell’ottica di ridurre la dipendenza dalle importazioni di materie prime e di altre componenti della produzione (re-shoring), in particolare quelle con elevati contenuti tecnologici, comporta implicazioni economiche e politiche difficili da ponderare.
Le Autorità politiche e monetarie e gli istituti di statistica le possono stimare per grandi aggregati dell’interscambio di beni e servizi, cosa relativamente semplice nel campo delle forniture energetiche. Assai più complicato effettuare queste stime per l’insieme delle merci che arrivano sui mercati, frutto di una complessa rete di forniture e di assemblaggi di: materie prime, brevetti, progettazioni, semilavorati, con annesse operazioni finanziarie, assicurative, logistiche e di marketing; attivate da operatori economici localizzati in decine di Paesi e per la gran parte sconosciuta anche per gli stessi venditori finali di questi prodotti.
L’economista americano Robert Reich, segretario del Lavoro durante la presidenza Clinton, offre una puntuale descrizione di questi processi (Il supercapitalismo, Fazi 2008), mettendo in evidenzia i rischi per il futuro delle democrazie in termini di allocazione delle scelte di investimento, di sottrazione di risorse fiscali e di capacità di controllo degli Stati nazionali da parte dei grandi player finanziari e delle multinazionali.
Il percorso della ri-localizzazione delle produzioni nell’ambito dei territori dei Paesi alleati (il “friend-shoring” recentemente auspicato dalla segretaria del Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen) diventa necessario per mettere in sicurezza le forniture rispetto alle nuove aree di rischio per motivi geopolitici e può essere favorito da una disponibilità di tecnologie che, a determinate condizioni, consentono di privilegiare le dinamiche della produttività e della qualità dei prodotti rispetto a quelle del costo del lavoro. Ma si preannuncia molto complicato per una serie di ragioni.
La prima, già evidente nel caso delle forniture delle energie fossili, riguarda le conseguenze asimmetriche dell’impatto sui singoli Paesi in relazione ai livelli di dipendenza dalle importazioni di energie fossili. L’asse tra i Paesi europei e gli Stati Uniti ha rivelato una sorprendente solidarietà sul fronte delle sanzioni verso la Russia, ma allo stato attuale è privo di una governance e di risorse in grado di tutelare i Paesi più esposti alle conseguenze dirette e indirette di questi interventi.
Nel breve periodo la ricerca di nuovi fornitori da parte dei singoli Paesi per ridurre la dipendenza dal gas russo genera un aumento della domanda e dei prezzi delle energie fossili, senza peraltro ridurre i rischi di natura geopolitica sul medio periodo date le caratteristiche dei nuovi Paesi fornitori. Le medesime considerazioni valgono anche per la dipendenza dalle materie prime e dalle tecnologie fondamentali per installare le energie rinnovabili, per la gran parte controllate dallo Stato e dalle aziende cinesi.
La rinuncia alle forniture su scala globale comporterà un aumento dei costi e degli investimenti. Stiamo prendendo atto, con un certo stupore, che la globalizzazione non è stata solo un espediente per comprimere le remunerazioni dei lavoratori dei Paesi sviluppati, ma ha contribuito in parallelo a comprimere i prezzi dei prodotti finali e a incrementare il potere d’acquisto reale dei nostri redditi.
Per contenere l’impatto dei costi-benefici e favorire le rilocalizzazioni delle forniture e delle produzioni negli ambiti territoriali meno esposti ai rischi diventa necessario mettere in campo delle strategie industriali multilivello.
Il tema viene preso in seria considerazione nell’ambito delle istituzioni europee. In questa direzione negli ambienti della Commissione Ue circola l’ipotesi di utilizzare le risorse per i prestiti del Next generation Eu non ancora impegnate (circa 200 miliardi di euro) per favorire il riposizionamento delle strategie nazionali della transizione energetica e ambientale per ridurre la dipendenza dalle fonti di approvvigionamento esterno e favorire il ritorno delle produzioni nei territori europei. La dotazione di tecnologie e di asset produttivi disponibili nel complesso dei Paesi aderenti all’Ue e del G7 è di gran lunga superiore rispetto a quella dei Paesi asiatici. Ma allo stato attuale risulta dispersa nell’ambito delle strategie messe in campo dalle grandi multinazionali per aumentare il proprio peso nel mercato globale e di competizione interna tra i vari Paesi.
Il ruolo degli Stati nel guidare questi processi, soprattutto per preparare il terreno e rendere meno conflittuali e costosi questi adeguamenti, non può e non deve essere interpretato come una sorta di ritorno della politica nelle decisioni aziendali. Il riposizionamento delle attività produttive rimane di fatto consegnato alle decisioni delle imprese che sono le uniche a essere dotate delle informazioni e delle stime economiche in grado di rendere economicamente sostenibili i percorsi di re-shoring delle decisioni. Semmai la vera novità è rappresentata dalla riscoperta del valore delle relazioni delle imprese con i cosiddetti stakeholder (lavoratori, fornitori, enti locali) come condizione per rendere sostenibili i percorsi di riallocazione delle risorse.
Questi dipendono dalla combinazione di tre fattori: dalla capacità di attrarre investimenti nel proprio territorio, dall’intensità degli investimenti tecnologici, dalla quantità e qualità delle risorse umane dotate di competenze adeguate. Una combinazione che richiede il concorso di economie pubbliche valutate sulla base di convenienze sistemiche e di scelte aziendali ponderate sugli obiettivi di efficienza e di responsabilità sociale.
Ogni Paese è chiamato a riflettere su come contribuire alla ricostruzione delle condizioni per ridare una governance a questi percorsi negli ambiti sovranazionali (tema che richiede un ripensamento anche degli approcci culturali finalizzati alla gestione delle relazioni geopolitiche) e ad attrezzarsi per rendere più attrattivi i propri territori. Un percorso che richiede, in via preliminare, la corretta valutazione degli interessi nazionali e dei punti di forza e di debolezza del proprio tessuto economico e sociale.
Per quanto riguarda l’Italia, in termini immediati la riduzione degli interscambi internazionali mette sotto pressione l’industria manifatturiera e agroalimentare che sono state protagoniste della straordinaria ripresa economica dello scorso anno. Il complesso dei comparti dei servizi mantiene un buon margine di recupero delle attività pre-Covid condizionate dalla tenuta dei redditi rispetto l’andamento dell’inflazione. Più in generale, il nostro Paese non brilla per capacità di attrazione degli investimenti, sottoutilizza le risorse finanziarie pubbliche e private disponibili, risulta carente per l’impiego di capitale e di tecnologie in numerosi comparti di attività, è scarsamente dotato di risorse umane competenti. Questo squilibrio è per la gran parte legato ai ritardi nelle regioni del Mezzogiorno, confermati nella prima fase di attuazione del Pnrr.
L’impianto delle politiche macroeconomiche rimane attualmente fondato sull’espansione del debito pubblico, sostenibile alla condizione di generare una crescita economica media reale vicina al 2% annuo, con aumenti della produttività elevati e in grado di compensare il declino demografico della popolazione in età di lavoro e di finanziare il nuovo debito con tassi di interesse contenuti. La crescita dell’inflazione sta vanificando buona parte di queste precondizioni.
L’intervento del presidente del Consiglio Draghi al Parlamento europeo ha delineato con lucidità i percorsi da intraprendere per offrire risposte adeguate alle novità emerse negli ultimi mesi. Ma, nel contempo, mette in risalto il gap esistente tra gli intenti dichiarati e i limiti delle nostre politiche economiche e del lavoro, che rimangono del tutto simili a quelle adottate nel corso della pandemia Covid per salvaguardare le imprese e i lavoratori dalle conseguenze della riduzione di attività produttive, in attesa di tempi migliori.
Possiamo accontentarci di questo? Evidentemente no. Il rischio latente, per molti aspetti inevitabile nel caso di un’escalation della guerra in Ucraina, è la deriva senza contrappesi verso uno scenario di stagnazione economica e di inflazione. Una buona parte della nostra eccelsa classe dirigente sembra seriamente convinta che questa nuova fase possa essere affrontata disimpegnando il nostro Paese rispetto ai vincoli di appartenenza all’Alleanza atlantica e rilanciando il conflitto tra il capitale e il lavoro. Sono idee velleitarie, ma non per questo meno pericolose.
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