Si racconta che Henry Kissinger, denunciando la mancanza di una leadership nella politica estera europea, abbia ironizzato sul fatto che quando voleva parlare con l’Europa non sapeva chi chiamare. Donald Trump, invece, non sembra avere questo tipo di problemi.

Con il suo tweet indirizzato contro Mario Draghi ha lasciato intendere che per lui l’Europa è semplicemente la proiezione geopolitica della Germania, che si avvale della politica monetaria della Bce per poter sostenere le sue esportazioni. Prefigurando la possibilità di un ulteriore taglio dei tassi e quindi di un’ulteriore fase espansiva, Draghi è stato accusato da Trump di concorrenza sleale, perché avrebbe causato la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro in modo da deprimere le esportazioni americane.



Prestigiosi commentatori hanno visto nel tweet di Trump, una rozza esternazione di natura “politica”, che confonde la politica monetaria con le manovre sui cambi, ma il messaggio ha un valore che va al di là dell’usuale strategia comunicativa del presidente americano, perché palesa una  realistica visione delle relazioni commerciali basata su rapporti di forza e competizione senza esclusione di colpi.



Del resto, ciò che è passato inosservato dalla maggior parte dei commentatori è che nel suo tweet Trump accomunava il comportamento dell’Unione europea a quello della Cina, ovvero all’avversario che parrebbe contendere agli Usa l’egemonia geo-economica su scala globale. Una prospettiva che, oltre a far temere una guerra commerciale con l’Europa, rappresenta l’Ue come una realtà in cui Draghi e Merkel sono la stessa cosa: esponenti di un blocco i cui interessi sono confliggenti con quelli Usa.

Mentre Matteo Salvini era in viaggio a Washington alla ricerca di un supporto contro la lotta alla rigidità della Commissione europea, Trump attaccava Draghi, ovvero chi con la sua politica monetaria può dare un po’ di fiato all’economia italiana.  Probabilmente il tweet di Trump sottaceva l’ennesimo tentativo di mettere pressione alla Fed a poche ore dall’attesa decisione circa il taglio, poi non avvenuto, sui tassi d’interesse. E in molti hanno ironizzato sul fatto che il presidente americano cambierebbe Jerome Powell con il presidente della Banca centrale europea, con chi, cioè, ha dimostrato di saper agire anche in acque difficili.



Come era prevedibile, il cambio di passo della Fed non è avvenuto, ma l’avvicinamento al G-20 di Osaka ha vissuto in questi giorni una tappa decisiva. Fra l’ossessione di Trump per il disavanzo commerciale e la ricerca della stabilità del sistema finanziario di Powell, sembra che si stiano insinuando i timori che porta con sé l’attesa per gli esiti del prossimo G-20. Aprendo alla possibilità di “agire in modo appropriato” e a favore dell’espansione, la Fed si prepara per l’incertezza della fase che ci accingiamo a vivere. In un contesto del genere l’attacco di Trump a Draghi suona come qualcosa di un po’ più complesso dell’uscita un po’ naïf del politico a digiuno dei fondamenti di finanza, ma risulta essere l’ennesima tappa del confronto  fra Main Street e Wall Street, fra finanza ed economia reale, rapporto contraddittorio che nell’economia Usa è  in parte testimoniato dalla coesistenza fra il Pil che continua a crescere (si è confermato il +2,1% previsto) e l’inflazione che continua a scendere (1,5% rispetto all’1,8% previsto).

Il fragoroso applauso che ha congedato Mario Draghi dal suo ultimo Eurosummit, non è solo il riconoscimento degli indiscussi meriti di chi ha salvato l’Eurozona, ma sembra celare i timori per il futuro, al momento rappresentati da Jens Weidman e dalle sue preferenze per politiche monetarie  restrittive, fatte nel nome del rigore. Come leggere altrimenti il tributo che Macron ha attribuito a Mario Draghi, e quel sentimento misto di nostalgia e attesa per leader che “whatever it takes” sappiano scongiurare la crisi sistemica che sembra attenderci?

Ma se nell’Eurozona per salvare l’economia è stato possibile applicare manovre non convenzionali, lo si è dovuto alla presenza dall’altra parte dell’Atlantico di un’economia che fungeva da prestatore di ultima istanza a livello internazionale, peso che l’America di Trump non sembra più avere la volontà e la forza di reggere.

Fino ad oggi, nel nome dell’indipendenza delle banche centrali, Fed e Bce in qualche modo hanno agito di comune intesa, ma se il futuro porterà con sé il ritorno della politica di potenza e l’inasprimento delle politiche neo-mercantiliste fatte a colpi di svalutazioni competitive e dumping (sociale), non è difficile immaginare che le due sponde dell’Atlantico saranno ancora più lontane.

Capire che ruolo giocherà la finanza in questa partita, è probabilmente la sfida più grande e interessante che ci aspetta.