Attraverso il Fiscal Monitor diffuso ieri, il Fondo monetario internazionale ha lanciato l’allarme sul debito pubblico globale, che raggiungerà quest’anno i 100.000 miliardi di dollari, pari al 93% del Pil, con la possibilità di arrivare al 100% entro il 2030. Anche per questo i Paesi più indebitati come l’Italia dovrebbero aumentare gli sforzi per migliorare la situazione dei propri conti pubblici. Da questo punto di vista, ricorda Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, «il nostro problema di finanza pubblica è una variante di una malattia generale, che riguarda un po’ tutti, anche la Cina. Deficit e debito da almeno un paio d’anni vengono utilizzati dalla gran parte dei Paesi per finanziare misure volte a sostenere economie galleggianti sull’orlo della crisi».



L’Italia ha comunque ricevuto un’importante “promozione” da parte di Fitch la scorsa settimana.

Mi sembra che la nostra situazione, guardando al breve periodo, sia migliore di altre. Pensiamo solo al fatto che nel Regno Unito si è scoperto un “buco” di oltre 20 miliardi di sterline che comporterà un aumento del carico fiscale e che in Francia ci si prepara a una manovra da 60 miliardi di euro che non basterà comunque a riportare i conti pubblici sotto controllo. Negli Stati Uniti c’è stato un importante incremento del debito pubblico dopo la pandemia e non sembra destinato a scendere dopo le presidenziali.



A favore degli Stati Uniti gioca, tuttavia, il ruolo internazionale del dollaro.

Buona parte dei T-bond viene sottoscritto dagli enti previdenziali e gli Stati Uniti godono dei benefici garantiti da una valuta che rappresenta il riferimento principale per le transazioni internazionali. È lecito, però, chiedersi fino a quando. È noto, infatti, che i Paesi del Sud del mondo, i Brics, hanno già predisposto le istituzioni e le infrastrutture per creare in tempi relativamente brevi un’alternativa al dollaro. Non possiamo dare per scontato che lo status attuale del biglietto verde duri ancora molti anni o decenni.



Cosa possono fare gli Stati Uniti di fronte a questa situazione?

Stanno cercando, tramite l’Inflation reduction act, di spingere le imprese straniere a trasferire le loro sedi principali negli Stati Uniti, ma per il momento questa strategia sta funzionando poco. Dovranno pensare a qualcos’altro.

Quale sono, a suo avviso, i punti di forza e di debolezza dei Brics?

Il principale punto di forza è che, oltre ad avere complessivamente la supremazia su alcune materie prime importanti, soprattutto per l’elettronica, hanno anche imparato a usarle e sono in grado di realizzare quei prodotti finiti che fino a poco tempo fa importavano dall’Occidente: basti pensare alle auto elettriche cinesi. La debolezza è, invece, rappresentata da una tendenza al rallentamento della spinta della loro crescita. È difficile capirne la causa, ma certamente c’è un problema di numeri errati. Per esempio, si sta scoprendo che alcune recenti stime sulla crescita della popolazione di Paesi come l’India sono “falsate” dal fatto che non viene eseguito un censimento da oltre vent’anni.

Parlando dei punti di forza di Usa e Brics sembra emergere ancora una volta la debolezza europea…

Una debolezza dovuta anche all’andamento demografico. Non a caso Confindustria l’altro giorno ha evidenziato che servirebbero 120.000 lavoratori stranieri all’anno per colmare il gap di offerta di lavoro determinato dal calo della natalità e dal numero crescente di laureati che lasciano il nostro Paese. È una questione che non riguarda solo l’Italia, ma un po’ tutta l’Europa.

Sarà cruciale per l’Europa creare un ponte verso l’Africa?

Sì, è così.

Si tratta di un continente dove, però, è forte l’influenza di Russia e Cina.

Russia e Cina sono molto presenti, in particolare grazie ad accordi che Pechino ha siglato da tempo per ottenere materie prime in cambio della costruzione di infrastrutture. Ma da qui a dire che gli africani non contano e decidono altri per loro ce ne passa. A me sembra di vedere una nuova classe dirigente in diversi Paesi africani molto più aperta e preparata che in passato. Basti pensare che ci sono sette marchi africani di automobili, finanziati in buona parte dai Governi, creati da persone che dopo aver lavorato per produttori europei hanno cominciato prima a realizzare ricambi e poi intere vetture. Certo, l’Africa resta un continente con non pochi problemi, ma comunque diverso dall’immagine stereotipata che spesso ne abbiamo.

Sembra che andremo di fronte a un periodo di nuovi dazi. Chi può trarne giovamento?

Credo nessuno. Sicuramente i dazi portano qualche vantaggio di breve termine ai Paesi più deboli che non hanno le materie prime a buon mercato. Ai noi occidentali, teoricamente, converrebbe una maggior libertà nei commerci, perché siamo bravi in tanti settori. In Europa la situazione è purtroppo peggiore. Per esempio, sull’auto è stata fatta una scelta sbagliata puntando tutto sull’elettrico, e non, per esempio, sull’ibrido, e adesso ne paghiamo le conseguenze. E se guardiamo ad altri settori ci accorgiamo di aver perso posizioni importanti: per esempio, una volta gli europei utilizzavano prevalentemente telefoni cellulari di marchi europei, oggi, con gli smartphone, non è più così. Di fatto, ci stiamo accorgendo di essere l’appendice di un mondo più vasto. Volendo fare un paragone storico, ci siamo accorti di essere i greci ai tempi dell’Impero romano.

Tornando al Fmi, si è parlato l’altro giorno delle stime di crescita dell’Italia, più basse di quelle del Centro studi di Confindustria. Cosa ne pensa?

Grazie a un’ottima stagione turistica, che ha ricadute positive sia sui servizi che sull’industria, a mio avviso il 2024 sarà positivo per l’Italia, considerando che la Germania potrebbe chiudere per il secondo anno consecutivo con una variazione negativa del Pil. Vedremo se la nostra crescita sarà dello 0,7%, dello 0,8% o dell’1%: non conosciamo il margine d’errore delle previsioni che sono state formulate.

(Lorenzo Torrisi)

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