L’uomo è come tutti lo conosciamo: schietto, provocatore, divisivo. Ma straordinariamente informato. E capace di suscitare idee, suggestioni, emozioni. Edward Luttwak, politologo, storico, consulente del Pentagono e di numerosi Presidenti degli Stati Uniti, compreso l’attuale Joe Biden, è stato ospite a Napoli della Fondazione Matching Energies di Marco Zigon, che ha offerto a una platea scelta di invitati la possibilità di partecipare a un confronto su possibili scenari “del mondo che verrà” con riferimento alla politica, all’economia, alla società.
A fargli da contraltare è intervenuto un diplomatico di lungo corso come Giuseppe Scognamiglio, Presidente dell’Eastwest European Institute, docente di Geopolitical Scenarios and Political Risk presso l’università Luiss Guido Carli, direttore generale del comitato promotore Roma Expo 2030. Sia pure con toni e approcci differenti, su gran parte dei temi trattati si è verificata una certa confluenza. Segno che i professionisti della materia, gli osservatori attenti alle dinamiche internazionali, stanno maturando convinzioni condivise.
La prima indicazione è che le due guerre che stiamo vivendo, quella scatenata dalla Russia in Ucraina e quella combattuta sul suolo israelopalestinese, sono diversivi per nascondere altro. Si tratta di conflitti regionali che difficilmente potranno trasformarsi in globali destinati a durare nel tempo per mancanza di soluzioni definitive. Difficilmente il campo di battaglia potrà premiare l’una o l’altra fazione – specialmente tra Mosca e Kiev – e la diplomazia non ha forza e argomenti sufficienti per essere decisiva.
Vladimir Putin è un nostalgico. Il suo obiettivo è ricostruire la grande Russia per la quale Kiev ha lo stesso valore che Roma ha per l’Italia: irrinunciabile. Questo implica due conseguenze: insisterà nel conflitto in corso finché il sogno non sarà coronato e non allargherà il fronte bellico ad altre nazioni perché non è motivato da voglie di espansione. L’erede degli zar deve temere una sola insidia: l’aumento dell’inflazione che oggi naviga intorno al 6 per cento e mina il reddito di un popolo che non ha margini di flessibilità per arrotondare.
La Cina è un gigante dai piedi d’argilla. Sotto la guida di Xi Jinping rappresenta la vera minaccia agli equilibri del mondo anche se la sua economia rallenta, la disoccupazione sale a livelli di guardia, la popolazione invecchia. Piuttosto che premiare gli investimenti in tecnologia, il nuovo Mao Tse Tung li disincentiva perché forse ritenuti una minaccia per l’eccesso di autonomia che potrebbero portare sul mercato fiaccando la sua presa sul Paese che incita in ogni occasione a essere più competitivo e combattivo.
L’America non ha più voglia di farsi immischiare in contenziosi che implicano l’impiego di forze armate sul terreno. È sempre e comunque il gendarme del mondo, ma i troppi errori commessi nel tempo (e la tragica ritirata di recente dall’Afghanistan) consigliano un comportamento più prudente rivolto ad ammonire, istruire, guidare gli alleati dislocati nei vari punti caldi e dei quali non può comunque fare a meno. L’economia e la politica continuano a essere solide, mentre l’intelligence mostra crepe che andrebbero riparate.
L’Europa ha poca voce in capitolo. Potrebbe giocare un ruolo centrale di mediatore, anche per la sua posizione geografica, ma non ha grinta e coesione sufficienti nemmeno per tentare. Per centinaia di anni ha tratto la sua energia dalle baruffe tra gli Stati. La pace delle armi ha portato anche quella dei sensi e occorre trovare quanto prima qualche fonte rinvigorente che la riporti a essere innovativa, creatrice, competitiva. Troppa burocrazia. La crisi della Germania è alla base di un malessere diffuso.
L’Italia esprime il rappresentante speciale dell’Unione europea per la regione del Golfo Persico, l’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che potrebbe svolgere un ruolo più incisivo nella definizione dei rapporti e delle alleanze in una delle aree più calde del pianeta. Nonostante la sua riconosciuta maturazione professionale, non riceve il sostegno necessario per svolgere al meglio il suo compito. E anche questo è un segnale di debolezza, se non di immaturità, perché dimostriamo di non credere alle istituzioni che ci diamo.
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