La globalizzazione è morta? Questa è la domanda che, almeno a partire dal 2018, domina il dibattito internazionale degli economisti. È nel 2018, infatti, che è scoppiata la “guerra dei dazi” fra Usa e Cina, “che ha portato i primi a imporre un dazio medio del 19,3% sulle importazioni dalla Cina e la seconda a rispondere con un dazio medio del 21,1% sulle importazioni dagli Usa” (Alberto Mingardi, Il Corriere della Sera del 2 novembre scorso).



Dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19 e l’acuirsi della tensione internazionale (guerra fra Russia e Ucraina in primis), in Occidente, e soprattutto negli Usa, si è verificata una spinta verso politiche economiche più “interventiste” e “protezionistiche”, avente un unico obiettivo, come indicato dall’Ispi: “ridurre le dipendenze e avere maggiore autonomia in un quadro globale sempre più problematico e incerto”.



Fanno parte di questa tendenza tutte quelle misure atte a favorire la produzione interna di beni precedentemente acquistati dall’estero (si pensi al Chips Act e all‘Inflation Reduction Act adottati negli Usa). L’idea, però, sarebbe anche quella di trasferire i propri fornitori da un Paese considerato non più affidabile a un altro politicamente più affine (friendshoring). In tal modo si accorcerebbero le supply chain globali e si costituirebbe un nuovo assetto mondiale diviso in “blocchi” commerciali.

Nel suo ultimo rapporto, tuttavia, la Wto dichiara che “il commercio continua a crescere e la liberalizzazione del commercio progredisce. Sebbene si siano verificate interruzioni nelle catene di approvvigionamento, il sistema commerciale ha retto durante le crisi passate ed è stato in grado di adattarsi in modo flessibile”. Ciò non elimina il fatto che le politiche in atto non facciano sperare nulla di buono, dato che una frammentazione dei mercati internazionali in blocchi contrapposti comporterebbe costi elevati per l’economia globale.



Ma perché, allora, i Governi stanno attuando delle politiche che interrompono quella tendenza che, negli ultimi vent’anni, ha fatto crescere l’economia mondiale di ben “14 volte” (Wto)?

La risposta è semplice: perché, dopo quasi 30 anni, è prepotentemente ritornato il “Politico”. Quello con la P maiuscola, che, come diceva il controverso quanto geniale giurista Carl Schmitt, è diverso dalla “politica” ed è determinato dalla distinzione “amico-nemico”.

Il Politico è lotta per il potere ed è fuor di dubbio che, oggi, siamo tornati a vivere in un mondo multipolare, dominato da una pluralità di potenze in competizione (per non dire guerra) fra loro per l’egemonia. “Il mondo politico è un pluriverso, non un universo”, direbbe il vecchio Schmitt. È quello che può portare gli Stati a intraprendere delle politiche più costose e meno efficienti, ma più efficaci per danneggiare i propri nemici e rispondere a precisi obiettivi geopolitici (e quindi non più strettamente economici).

La globalizzazione economica non è morta e, dopo il livello di integrazione raggiunto dai mercati internazionali, probabilmente non morirà mai. Piuttosto, è morto l’unipolarismo ed è stato sostituito da un “pluriverso” di “grandi spazi” (Schmitt) quanto mai complesso e dagli esiti incerti.

Muoversi sui mercati internazionali sarà quindi sempre possibile e potrà riservare, per chi li saprà cogliere, notevoli aspetti di vantaggio. Tuttavia, una cosa è certa: nessuno potrà più operare con l’estero senza tenere conto del fattore Politico.

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