Il viaggio del Presidente francese Emmanuel Macron ha confermato in modo plastico quanto l’Ue sia oggi organismo lacerato. Quanto mostri “un encefalogramma piatto”, come peraltro lo stesso Macron diceva della Nato appena tre anni fa. Ma fra gli sconvolgimenti portati dalla pandemia poi mutata in nuova “confrontation” geopolitica fra Occidente e Resto del Mondo, vi è appunto la resurrezione della Nato e l’avvitamento centripeto dell’Ue.
Mentre il Presidente francese volava verso Ovest per riannodare qualche filo (franco-europeo) con Washington, il presidente del Consiglio Ue – il belga Charles Michel – si metteva in viaggio di direzione diametralmente opposta, verso Pechino. Pochi giorni prima la medesima rotta era stata seguita dal cancelliere tedesco Olaf Scholz: una mossa giudicata da molti osservatori come nervosa e frustrata da parte di un leader strattonato da troppi lati (il primo è evidentemente quello dell’Azienda-Germania che ha nella Cina un mercato vitale). Ma che dire della Presidente della Commissione Ue, la tedesca (cristiano-democratica) Ursula von der Leyen?
Mercoledì sera sarà alla Scala di Milano, a fianco del presidente italiano Sergio Mattarella ma anche del premier Giorgia Meloni, alla fine più che per un appuntamento mondano. L’Italia ricollegata con gli Usa di Joe Biden (che al G20 di Bali ha concesso immediatamente un bilaterale alla neo-premier italiana) rappresenta comunque un momento di stabilità. Sullo stesso fronte Ue, Italia e Francia – anche per l’azione soft di Mattarella – sembrano camminare abbastanza in parallelo sia sulla necessità di una soluzione diplomatica della crisi ucraina (anzitutto a tutela di Kiev), sia in direzione di un serio ammodernamento dei parametri di Maastricht. La frattura fra Roma e Parigi sulla crisi migratoria è parsa più una bolla mediatica che uno strappo reale. La vera frattura – su quel lato – è quella fra l’Ue odierna e gli Accordi di Dublino del 2013, in pezzi come lo è il Trattato del 1991 (per fortuna l’euro vive per ora di vita propria sui mercati).
È su questo sfondo – di pericolosa paralisi a Berlino – che la Francia (unica potenza nucleare autonoma della Ue) ha lanciato una “Comunità politica europea” per la quale sono in lista d’adesione ben 44 Paesi: molti di più dei 26 dell’Unione e dei 20 dell’Eurozona (con la Croazia dal prossimo 1 gennaio). A Praga si è rivista sul Continente perfino la Gran Bretagna, dove ormai si discute apertamente di una “Brexit 2” ri-concordata con Bruxelles. E la capitale ceca – ufficialmente sede della presidenza Ue nel semestre – ha di per sé segnalato un forte spostamento del baricentro continentale: inevitabilmente risucchiato nel teatro bellico ucraino.
È uno scenario in cui ha assunto ovvio rilievo anche il recente vertice dei ministri degli Esteri Nato, non a caso tenutosi a Bucarest: in una Est-Ue in cui pare già in via di demolizione il “muro di Visegrad” che ha marcato per anni alla rinfusa le distanze variabili da Bruxelles di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Romania. Oggi è nella fascia che dai Balcani porta ai Paesi baltici che gli Usa stanno incardinando la “Nuova Nato”, cui agganciare la stessa Ucraina. E la Super-Nato sta emergendo prepotentemente come principale contenitore geopolitico di una metà del mondo non più limitata all’asse Atlantico, ma estesa verso l’Oriente Asiatico.
Qui la stessa Francia pare aver superato lo sgarbo-shock della nascita di Aukus, l’accordo militare trilaterale fra Usa, Australia e Gran Bretagna siglato un anno fa: prima che l’escalation ucraina provocasse un parallelo surriscaldamento attorno a Taiwan. Parigi subì uno schiaffo geopolitico e finanziario, vedendo sfumare impegnative commesse militari all’Australia. Dodici mesi dopo, tuttavia, è chiaro che Aukus può essere l’anticamera dell’adesione alla “nuova Nato” di Australia e Nuova Zelanda, allargandosi in prospettiva ad altri Paesi preoccupati dell’espansionismo cinese. Giappone e Corea del Sud sono i capisaldi dell’Occidente americano in Asia, ma dalle nuove dinamiche non può essere certo esclusa l’India. New Dehli cinque anni fa ha scelto di sedersi a Quad: un “tavolo di dialogo sulla sicurezza” creato con Usa, Australia e Giappone. L’India è una potenza nucleare (in bilancia con il Pakistan islamico) che difficilmente abbandonerà il suo “non allineamento” strategico, ma altrettanto difficilmente rinuncerà a un legame con il nuovo Occidente-Nato, in funzione di contenimento di Russia e Cina.
È in questo spazio che la Super-Nato tende già a proporsi come più ampio perimetro “di civiltà” e non più solo militare: capace quindi di ridisegnare mercati e flussi economico-finanziari e tecnologici. Lasciando all’Onu una funzione molto depotenziata di stanza di compensazione fra blocchi di un pianeta sconvolto nella sua mappa: come hanno confermato proprio le verifiche di voto al Palazzo di Vetro sulla crisi ucraina. Di generica condanna di Mosca, ma con l’affermazione di fatto di un neutralismo maggioritario.
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