Da quando chi scrive pubblicò con E. Luttwak e G. Tremonti “Il fantasma della povertà” (Mondadori, 1995) persegue un programma di ricerca di lungo termine con il titolo “Riparazione del capitalismo democratico” (anche titolo di un libro, Rubbettino, 2021): l’oggetto di studio è l’inversione del declino delle democrazie – aggravatosi dagli Anni 90 a oggi – sia sul piano della ricchezza interna, sia su quello del dominio geopolitico e culturale del pianeta, i due livelli correlati.
Perché una tale enfasi ora su un fenomeno a “curva lunga”? Perché la sfida di molteplici shock economici dal 2008 e quella della crescente potenza di regimi con modello di capitalismo autoritario ha, da un lato, mostrato una rimarchevole reattività da parte del complesso democratico globale, ma, d’altro lato, anche i limiti. Per rinforzare tale reattività e convertirla in vittoria duratura e mondiale delle democrazie sull’autoritarismo serve una teoria/strategia più forte di quelle in circolazione, per lo più definibili come “pensiero debole”. Qui, con metodo di sintesi convenzionalista, ma fattualmente controllato, uno scenario di “pensiero forte” in materia.
Riparare le democrazie implica rendersi conto che si è in una configurazione ancora giovane e incompleta della Rivoluzione democratica. Questa è definibile come trasferimento di facoltà/poteri dai pochi ai molti.
Prima fase: dal 1600 ha preso avvio la forma moderna del trasferimento del potere politico, cioè della proprietà politica di uno Stato dal Re a un Parlamento. Seconda fase: il trasferimento della ricchezza dai pochi ai molti, a partire da circa la metà del 1800.
Il primo trasferimento è rallentato dalla formazione di clan, nuove aristocrazie, o partiti con eccesso di mediazione della rappresentanza politica. In alcune nazioni dove c’è l’elezione diretta dell’esecutivo meno, in quelle dove è indiretta di più. Più grave, il secondo trasferimento si è bloccato e mostra una tendenza di inversione: nei dati è osservabile una regressione del capitalismo di massa e del sogno di parteciparvi, dato correlato con la stasi della mobilità ascendente misurata nella democrazia statunitense, meno, e in quelle europee, di più. Quindi, è necessaria una riparazione, inserendo una Terza fase: mettere in grado più individui di accedere alla ricchezza via lavoro.
Come? Abbandonando il welfare redistributivo per passare gradualmente al welfare di investimento dove un massimo di denaro fiscale (investimenti e detassazione) viene utilizzato per dare sia una configurazione dinamica al mercato, sia dotare ogni individuo del “potere cognitivo” per cogliere le opportunità del mercato dinamico stesso. Si tratta di semplice liberismo? No, a ogni individuo viene dato il diritto finanziarizzato di ricevere la miglior formazione possibile in giovane età e quella continua lungo l’arco della vita: la missione del welfare di investimento è trasformare i deboli in forti e non quella di mantenere deboli i deboli stessi come fa il modello redistributivo.
Un nome per la Terza fase? Trasferimento del potere cognitivo dai pochi ai molti. Ma è necessaria anche una Quarta fase: creare un mercato integrato globale delle democrazie con confini economici selettivi verso le non-democrazie (Free Community) che pareggi le condizioni di concorrenza ed eviti di finanziare con deficit commerciali l’emergere di potenze ostili, dargli una governance convergente, iniziando a strutturare il G7, estendendolo, e dandogli una missione di “pressione democratizzante” globale.
Pur in declino, il complesso democratico internazionale ha ancora la possibilità di farlo. I portatori di realpolitik temono una tale strategia perché portatrice di tensioni. Tuttavia dovrebbero riflettere: il “realismo tattico” tende a gestire rischi e problemi congelandoli nel presente, via inerzia, ma proiettandoli amplificati nel futuro. Il “realismo strategico”, invece, tende a risolvere presto problemi e rischi per evitare che nel futuro eccedano la capacità di gestirli. Ovviamente le prassi di governance richiedono un mix dei due approcci in relazione alle circostanze. Ma ora c’è un eccesso tendenziale di mollezza nelle democrazie che lascia un vuoto a favore dei regimi autoritari.
Chi scrive spera che nel 2023 venga inventata la “bandiera della democrazia” inseribile come secondo emblema accanto a quello di ciascuna nazione democratica e innalzabile da tutti gli individui che vogliono libertà nelle comunità oppresse, sacrificandosi per essa come in Cina, Iran, Russia, Bielorussia, Birmania, Cuba, Venezuela, ecc.: Nova Pax è il nome della Quarta fase.
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