JPMorganChase – la più importante banca Usa – ha chiuso il primo trimestre con utili record (13,4 miliardi di dollari, +6% annuo), ma Wall Street l’ha punita. Il titolo è caduto al listino perché il gruppo ha annunciato di prevedere per l’intero esercizio un margine d’interesse invariato rispetto a quello – pur molto importante – registrato per il 2023. Fuori dal gergo tecnico: JPM mostra di credere, alla base dei suoi scenari, che la Fed inizi ad abbassare i tassi. spingendo così a contrarsi anche i tassi attivi che le banche applicano ai propri debitori, imprese e famiglie. Ma gli investitori non ne sono affatto felici: sembrano destinati a contrarsi anche gli elevati profitti che il settore creditizio ha lucrato sullo “spread” fra tassi attivi (quelli delle banche centrali sono oltre il 4%) e quelli passivi (quelli sui depositi bancari sono rimasti ancorati allo zero). Non aveva quindi sorpreso che lo stesso Ceo di JPM, negli ultimi giorni, avesse lanciato segnali di nervosismo.



Jamie Dimon, il decano dei banchieri di Wall Street, ha espresso dubbi sul fatto che i tassi sul dollaro siano avviati con sicurezza su un sentiero di ribasso, lungo i tre tagli preconizzati dalla Fed per la seconda metà dell’anno. Addirittura, Dimon non ha escluso nuove fasi di turbolenza, forse con impennate dei tassi oltre i livelli attuali. Come se non bastasse, all’ultima rilevazione mensile, l’inflazione americana ha registrato un leggero rialzo: una battuta d’arresto sul percorso di “disinflazione” in corso dalla fine del 2023. Comunque: quello di Dimon è stato un “sincero” allerta, fondato sulla situazione geopolitica ancora lontana da una minima stabilizzazione (anzi)? Oppure è il “wishful thinking” di un banchiere che in fondo non ha così fretta che la “terza guerra mondiale” – così ricca di ricadute positive per i grandi intermediari – finisca troppo in fretta?



Che la questione non sia confinata solo oltre Atlantico lo conferma anche un recente sorpasso sui listini europei: le due maggiori banche italiane (UniCredit e Intesa Sanpaolo) hanno raggiunto una capitalizzazione aggregata di Borsa superiore ai 120 miliardi di euro, più alta di quella confrontabile per le due maggiori banche francesi (BnpParibas e Credit Agricole). All’inizio del 2021 – ancora in piena pandemia e con la crisi russo-ucraina neppure all’orizzonte – UniCredit in Piazza Affari valeva un quarto di oggi e Intesa meno della metà. I super-guadagni hanno incorporato almeno due bilanci ingrassati dal caro-tassi (quelli 2023 sono in approvazione in questi giorni) e continuano a scontare previsioni di ribassi molto prudenti sui tassi dell’Eurozona (lo ha confermato il tono della Presidente Bce, Christine Lagarde, non più tardi di giovedì scorso).



Mercati e authority non possono che convergere entrambi negli auspici di banche molto redditive e molto ben valutate dagli investitori: questi ultimi realizzano profitti (dopo i due anni di dieta-Covid); la Bce (banca centrale e autorità di vigilanza bancaria) è meno preoccupata sul fronte della solidità del sistema creditizio, dopo anni non privi di ansie recessive e di dissesti (in Europa, su tutte, quella di Credit Suisse). E in fondo anche un Governo come quello italiano – che pure non è riuscito a imporre una tassa straordinaria sugli “extra-profitti” bancari – sta traendo più di un beneficio: primo fra tutti la concreta possibilità di dismettere sul mercato il “paccone” statale di Mps; ma anche l’aver potuto richiamare sui titoli governativi della Repubblica molte decine di miliardi di risparmio privato nazionale, che sarebbero rimasti dormienti sotto ai materassi delle famiglie se si fosse protratta la lunga fase di “tassi zero”.

I tassi e le banche stanno dunque emergendo come “caso particolare” – sebbene non dei più trascurabili – di un Occidente in cui molti player economici e politico-istituzionali – si mostrano cauti di fronte alla prospettiva di tagliare con l’accetta i nodi della crisi geopolitica (lo scambio di colpi fra Israele e Iran è stato anzi indicativo del contrario). La febbre inflazionistica sembra quindi ancora lontana dall’essere debellata (il petrolio sta sostituendo il gas naturale come molla, mentre il commercio internazionale resta “strozzato” in vari punti); e ha già lasciato cicatrici profonde e durature (15% di svalutazione media aggregata di risparmi delle famiglie e dei “redditi fissi”).

In società democratiche come quelle occidentali le elezioni (in programma all’inizio di giugno in Europa e in novembre negli Usa) si profilano come fondamentali valvole segnalatrici di ogni possibile squilibrio politico-economico. Ma nel frattempo le banche si sono allineate ai giganti energetici e ai gruppi produttori di armi elettroniche nel non essere in prima fila nell’invocare il ritorno della pace. Oltre, naturalmente, a tutti quelli che hanno investito sull’intelligenza artificiale.

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