La coda dell’amministrazione Trump ha ulteriormente inasprito le relazioni con la Cina. La conversione in legge dell’Holding Foreign Companies Accountable Act (Hfcaa), avvenuta il 18 dicembre 2020, con cui si obbligava le società quotate in Borsa a Wall Street a non essere possedute o controllate da un governo straniero e quindi a conformarsi nel giro di tre anni alle regole di revisione del governo federale, seguiva i provvedimenti che impedivano ai fondi pensione federali di investire negli equities cinesi e le sanzioni mirate a punire i funzionari cinesi dello Xinjiang e di Hong Kong.
L’Hfcaa, il cui scopo ufficiale è quello di proteggere gli investitori aumentando il livello di trasparenza finanziaria, in realtà implica un duro colpo agli interessi cinesi rappresentati da 217 società quotate a Wall Street che valgono 2 trilioni di dollari di “market cap”, le quali per “ragioni di sicurezza nazionale” non consentono audit ai revisori internazionali indipendenti.
Il ricorso da parte di Trump alla leva finanziaria come strumento di pressione geopolitica è rafforzato anche dall’ordine esecutivo firmato il 5 gennaio che vieta transazioni effettuate con otto app cinesi come Aliplay e Ant Group, le piattaforme di pagamento online del miliardario Jack Ma. Le restrizioni riguardano anche il colosso tecnologico Tencent di Pony Ma, che è il player principale nel mercato delle chat online cinesi. Misure prese nel nome della difesa degli interessi nazionali e del rispetto della privacy dei consumatori, che però lasciano una complessa eredità all’amministrazione Biden.
Al momento è difficile valutare l’impatto delle misure prese contro i campioni del capitalismo digitale cinese. I giudici federali hanno già ribaltato le decisioni del governo di bloccare WeChat e TikTok; allo stato attuale esse sembrano soprattutto complicare ulteriormente la vita ad Alibaba, in questi giorni impegnata in una complessa battaglia con l’antitrust cinese.
Ma ciò che vale la pena sottolineare è il tentativo di Trump di usare forme di repressione finanziaria come arma di contenimento della Cina e come strumento di pressione su Wall Street. Mentre in tanti analisti sono pronti a scommettere che l’amministrazione Biden sarà in grado di mettere in piedi un originale mix di multilateralismo, realismo e difesa dei diritti umani, conviene riflettere sullo stato attuale del decoupling tentato da Trump.
Se i dazi e il protezionismo degli ultimi anni hanno favorito in qualche modo Main Street e l’economia reale, Wall Street sembra andare in una direzione opposta a quella tracciata dal decoupling trumpiano. Come ha correttamente fatto osservare George Magnus, il flusso di capitali verso la Cina non sembra arrestarsi e realtà come BlackRock, Bridgewater Associates, Citibank, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, Pioneer e Vanguard stringono quotidianamente i loro rapporti con il governo di Pechino, ottenendo le licenze necessarie per espandere le loro attività. Un legame che sta producendo novità interessanti nel settore degli investimenti di portfolio e addirittura nell’asset management. Le eccedenze di capitali di Wall Street e il know how nel settore dell’intermediazione bancaria contribuiscono a rafforzare le fondamenta dell’economia cinese e a neutralizzare gli effetti negativi dei blocchi commerciali e delle catene di approvvigionamento.
Non può non sfuggire all’osservatore l’atteggiamento completamente opposto del governo cinese rispetto a quello di Trump. Pechino anche nei giorni difficili delle trattative commerciali ha continuato ad accogliere le attività delle società di investimento, di asset management e delle assicurazioni anche a costo di limitare il suo controllo sul mercato azionario. Un rischio, conviene ricordarlo, che Pechino può prendersi anche grazie al colossale surplus sulla bilancia dei pagamenti.
La grande attrattività dei mercati finanziari cinesi paradossalmente risulta anche rafforzata dal progressivo delisting dagli indici azionari americani delle società cinesi. A fronte di una crescente “connessione” finanziaria fra Wall Street e Pechino – che spiegherebbe il sostanziale disinteresse di Wall Street per i recenti eventi dell’assalto al Campidoglio – a Biden non rimarrà che prendere atto di una situazione sulla quale non potrà influire, a meno che egli non decida di indossare la maschera di Trump o di effettuare un complesso rilancio su grande scala della difesa dei diritti umani con cui ricompattare il campo dei paesi occidentali. Un sentiero difficile da percorrere dopo la stipula del Comprehensive Agreement on Investments (Cai) e del Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) e che non tiene conto della storia dell’economia, che ha sempre visto decidere lo spostamento dell’egemonia geo-economica prima sul campo della finanza e poi su quello delle vicende politiche e militari.
In definitiva si tratta di capire se il lungo percorso tracciato dal flusso delle eccedenze di capitali che dalla Borsa di Amsterdam passò per la City di Londra e infine arrivò a Wall Street, si concluderà a Shanghai e nelle “camere di compensazione” di Singapore e Hong Kong.
A ben vedere, però, al trionfo di Pechino manca ancora un tassello decisivo: i mercati americani rimangono ancora chiusi e le ultime vicende non sembrano lasciar presagire al riguardo delle grandi novità. Solo quando la Cina riuscirà a imporre a Washington un trattato bilaterale sugli investimenti in grado di piegare la rigida sorveglianza del Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius) sull’impatto degli investimenti stranieri sulla sicurezza nazionale, Pechino potrà definitivamente cantare vittoria.