La stagione dei risultati trimestrali continua a confermare come la guerra russo-ucraina sia anche un grosso affare. Ed era inevitabile che fossero i conti delle major petrolifere e mettere il dito sulla piaga dell’inflazione globale nelle bollette e ai distributori: il cui rovescio è un boom della redditività per chi offre sul mercato prodotti energetici.
Al di là dell’Atlantico, ExxonMobil (17,9 miliardi di dollari di profitti fra aprile e giugno) e Chevron (11,6 miliardi) hanno entrambe nettamente battuto al rialzo le attese e i precedenti saldi di bilancio. Ma anche in Europa la crisi geopolitica ha fatto schizzare gli utili: triplicati a 9,8 miliardi di dollari per la francese TotalEnergies e a 11,5 miliardi per l’anglo-olandese Shell (secondo trimestre record, al raddoppio sul 2021). British Petroleum è attesa a una trimestrale fotocopia. L’italiana Eni non è stata da meno, proiettando il proprio risultato netto da 929 milioni a 3,81 miliardi dal secondo trimestre 2021 a quello dell’esercizio in corso.
“Stanno facendo più utili di Dio”, ha lamentato il Presidente americano Joe Biden: che si sta sgolando da settimane perché i giganti petroliferi moderino la tendenza a “ottimizzare” a proprio vantaggio le turbolenze del prezzo del petrolio, strettamente connesse con quelle del gas nel “risiko” delle sanzioni e dei boicottaggi fra Russia e Occidente. Ma i numeri (anzitutto il prezzo della benzina oltre 5 dollari il gallone negli Usa e oltre i due euro al litro in Italia) sembrano smentire ogni deroga a strette dinamiche di mercato: quelle che stanno scaricando sui consumatori un’inflazione media ormai prossima alla soglia delle due cifre.
Nel frattempo tutti i Governi hanno ventilato una tassazione straordinaria sui “superprofitti” realizzati dai grandi gruppi energetici: ma nessuno ha ancora affondato il colpo. In Gran Bretagna la questione è di primo livello nella gara per la successione a Boris Johnson (e la candidata in testa, il ministro degli Esteri Liz Truss, è contraria a prelievi extra). In Italia si vota fra sette settimane e quello che il ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani – da sempre critico versi i nuovi venti speculativi nel settore energetico – ha potuto fare è stato sganciare dal Ttf dell’euromercato del gas basato in Olanda il meccanismo di formazione dei prezzi finali all’utente. La Francia – con il Presidente Macron privo di maggioranza in Parlamento – ha imboccato una strada diversa: ha rinazionalizzato Edf, che infatti ha chiuso il secondo trimestre con forti perdite indotte dalla decisione dello Stato di modulare prezzi “amministrati” per proteggere i cittadini. Ma è negli Usa che si sta giocando la partita forse più importante.
L’Amministrazione Biden sta ottenendo via libera al Congresso per il suo originario piano post-Covid “Build Back Better” rivisto in chiave di “Inflation Reduction Act”. Il budget per sostenere la transizione verso energie innovative dovrebbe essere riarticolato per raffreddare i prezzi finali: ma con quali accorgimenti e interventi regolatori ancora non è chiaro. Alla base della campagna elettorale che ha condotto Biden a sconfiggere Donald Trump due anni fa vi era una decisa svolta verso la green economy e un contrasto sostanziale (anzitutto fiscale) alle diseguaglianze socioeconomiche: anzitutto quelle fra bassi salari e alti redditi da capitale. Era e resta questa la spinta principale dall’ala radicale dei democratici, determinante nella vittoria per la Casa Bianca. Il giorno degli esami è fra tre mesi: al voto midterm chiamato a rinnovare a Washington l’intera Camera e un terzo del Senato.
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