Il fresco Rapporto dei dodici saggi “carolingi” – sei francesi e sei tedeschi – sulla riforma dell’Ue ha anzitutto un fine politico: riannodare le fila della revisione dei Trattati di Maastricht che Parigi e Berlino avevano lanciato all’inizio del 2019, pochi mesi prima dell’eurovoto. Angela Merkel, Cancelliera ancora in piena carica, ed Emmanuel Macron, approdato da appena due anni all’Eliseo, intendevano confermare la loro leadership sull’Unione alla vigilia attesa di un “Terzo Trattato”; fra l’altro al complicato passaggio di Brexit. Meno di cinque anni dopo quel momento è non solo irrealizzato, ma appare quasi preistorico nelle premesse.
La pandemia e poi la crisi geopolitica hanno cambiato molto se non tutto, dentro e attorno l’Europa. Dentro e attorno Francia e Germania. Merkel – a lungo una sorta di “Premier europea” – ha lasciato Berlino sconfitta alle elezioni del 2021, venendo poi subito “condannata dalla storia” quando la Russia dei gasdotti Nord Stream ha attaccato l’Ucraina. Macron è stato faticosamente rieletto nel 2022, ma continua a essere semiparalizzato, in casa e fuori. E la Parigi liberaltecnocratica appare sempre meno in sintonia con Berlino, dove oggi governa un’inedita e malferma coalizione rosso-verde. Non per questo il “libro bianco” franco-tedesco sul futuro possibile dell’Europa non merita una lettura attenta: anzitutto perché – salvo la doppia firma “golden” – rinuncia a ripartire da “dov’eravamo rimasti” nel 2019 e si sforza di misurarsi con la magmatica e incandescente geopolitica odierna.
Certamente non nuova è l’idea di ricostruire l’Unione “a più velocità”. Lo è invece quello di far uscire il format dalla semplice dimensione finanziaria/monetaria interna alla Ue-26, proiettando invece la riforma dell’Unione su uno sfondo globale. In concreto: se esiste tuttora un problema di allineamento fra le venti economie dell’eurozona e le 26 dell’Unione, sembra ormai riduttivo (anche se sicuramente non eludibile) discutere di “parametri 2.0” su debito, deficit, export (che è peraltro quello che sta impegnando in queste settimane la Commissione e i leader Ue).
L’Eurozona sembra invece destinata ad assumere in modo definitivo la fisionomia di “Prima Europa”. Un sistema i cui organi attuali (Consiglio, Commissione, Bce, e un futuro “ministro delle Finanze” più del Parlamento) concentreranno maggiori poteri e tutti i bulloni-regola saranno revisionati e ristretti: sia per Paesi che desiderano restare membri (l’Italia è il più importante fra questi); sia per quelli che in un futuro più o meno vicino chiedano di aderire alla moneta unica, a questo punto tessera di appartenenza a una “core Union” molto compatta (prevedibilmente liberata dal criterio dell’unanimità nei processi decisionali).
E su questo punto fermo che è forse più percepibile la volontà di Francia e Germania di rilanciare il progetto europeo, ma anche la loro leadership su un’Europa che non vuol essere ridotta a “espressione geografica”. Le implicazioni da sciogliere non sono tuttavia poche, finanziarie e politiche. È evidente che davanti a un Paese come l’Italia si aprirebbe un lungo periodo (da un quinquennio a un decennio) di impegnativa riconversione del proprio sistema, non solo economico-finanziario. È chiaro che le scadenze del Pnrr si farebbero più sfidanti, quasi strutturali. Un possibile “gioco del dentro o fuori” sembra però riguardare molti Paesi, fors’anche in termini più pesanti rispetto all’Italia.
Membri Ue oggi “problematici” come Polonia e Ungheria (forse negli intenti di Parigi e Berlino) tenderebbero a venir allontanati dal centro decisionale dell’Europa (già nel 2015, tuttavia, il salvataggio della Grecia venne assestato dai soli appartenenti all’Eurozona). Ma anche Paesi molto diversi come Svezia e Danimarca si troverebbero a un bivio (la Finlandia invece è già nell’Eurozona assieme alle tre repubbliche baltiche). La Slovacchia ha l’euro, la Repubblica Ceca no. L’effetto riforma avrebbe dunque come esito effettivo la rimessa in discussione dell’intera mappa europea: interrogando su requisiti economici, istituzioni politiche e ragioni ideali virtualmente ogni Paese del Vecchio continente. Anche quelli che sono fuori dall’Ue e vorrebbero oggi entrarvi (fra questi anche l’Ucraina). O ri-entrarvi: come probabilmente tenterebbe la Gran Bretagna in caso di vittoria laburista alle prossime elezioni.
È su questo sfondo che il rapporto franco-tedesco recupera un’idea recente di Macron: la creazione di una “Comunità politica europea”, che ha conosciuto una sorta di simulazione forte a Praga nell’ottobre del 2022, già “in tempo di guerra”. Vi hanno partecipato 44 Paesi: fra cui Azerbaijan e Armenia, in questi giorni in conflitto. C’era la Turchia di Recyp Erdogan, del resto eterna candidata all’ingresso a ogni organizzazione europea. C’era il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky con i leader di tutti i Paesi balcanici che si stanno in questi mesi aggrappando all’Europa: dalla Moldavia alla Nord Macedonia, fino ad Albania e Montenegro. C’era Cipro (avamposto mediterraneo di Ue ed Eurozona di fronte al Medio Oriente). A rappresentare l’Italia c’era il Premier uscente Mario Draghi, di cui sta prendendo quota la candidatura possibile alla Presidenza del Consiglio Ue dopo l’euro-voto di giugno.
È a questo perimetro che anche il rapporto sembra guardare come “Seconda Europa”: un’entità che si prospetta in parte come G-Europe (un forum permanente e organizzato, ma non “deliberativo” come G7 e G20 o come ormai l’Onu stessa), ma anche come più concreta zona di identità europea (da Londra a Kiev) e di confronto strutturato su ogni dossier (a cominciare dall’ingresso di singoli Paesi nell’eurozona, ma anche di loro fuoriuscita). La nuova Comunità europea sembra avere sulla carta più Strasburgo che Bruxelles come riferimento istituzionale: identificando anche un percorso di crescita dell’europarlamento che finora non è sempre stato facile. E se la nuova “confrontation storica” si misurerà sul terreno delle “civiltà” (Occidente euramericano verso Cina e Russia, con India, Israele, Arabia Saudita, Iran e in parte America Latina come interlocutori significativi) non sembra inopportuno costruire uno specifico format europeo.
Una “Terza Europa” si configurerebbe d’altronde attorno alla nuova esigenza strategica di garantire sicurezza e difesa dopo lo showdown bellicista russo. L'”Europa militare” non è mai nata anzitutto per l’esistenza della Nato: che la crisi russo-ucraina ha fatto entrare di colpo in una fase di tumultuoso ripensamento. L’Alleanza atlantica osteggiata da Donald Trump perché costosa per gli Usa; e criticata da Macron perché geopoliticamente irrilevante è tornata ad avere rilevanza nel drammatico baricentro europeo, ottant’anni dopo la conclusione dell’ultima “guerra mondiale”. La “Nato-izzazione” dell’Ue è già una realtà, con tutte le sue problematicità: simboleggiate dalle resistenze tedesche a fornire carri armati all’Ucraina, lanciando invece un programma di riarmo solo nazionale per la Wehrmacht. La Nato, d’altronde, sta già allargandosi e ristrutturandosi in Asia con l’aggancio di Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud.
Appare dunque realistico immaginare che l’Europa della difesa prenda forma per davvero all’interno di una “Grande Nato”. In cui il ruolo guida rimarrebbe agli Usa, al vertice di un network fitto di relazioni prevalentemente bilaterali con in Paesi membri, europei e non. È ovvio che sarebbero tutte da esplorare le interazioni fra sfera militare e sfera geoeconomica: come Oppenheimer sta ricordando in queste settimane al cinema a milioni di abitanti del pianeta terra, sono stati una guerra mondiale e un investimento gigantesco a portare l’umanità in una nuova era tecnologica.
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