I fatti. Una lunga processione a composizione variabile si reca in pellegrinaggio al citofono di George Harrison. Lo impetrano di tornare, a modo loro si saranno scusati, fatto sta che nel bel mezzo del delirio per registrare, in tempi serrati, un album, fare uno spettacolo e realizzare un film sull’ultimo album dei Beatles, George semplicemente s’alza e se ne va. Un po’ come le epopee americane in cui i mariti proclamano “vado a comprare le sigarette” e scompaiono tra highways e motel. Lui, però, un bigliettino lo lascia: ci si vede in qualche club. I primi incontri producono più fumate nere di un conclave, poi torna come se nulla fosse successo.



Per ora ciascun appassionato sta metabolizzando il monumentale Get Back; sarà una miniera di documentazione destinata a cambiare, almeno in parte, la storia, bordeggiante l’epica, dei Fab Four. Chi, invece, come chi scrive, è impelagato in questioni di cuore con le sei corde, osserverà più da vicino Harrison, nel quale si riassume tutto il disagio d’essersi votato oblato a Nostra Signora de’ Liutai. E’ lui la plastica fenomenologia del chitarrista. E manca, manca enormemente.



La distanza. La rimarca nei movimenti e in uno sguardo non sempre vigile sull’attualità. Sembra pensare sempre a qualcos’altro, un peso maggiore che lo sovrasta nei pensieri, mentre tutto intorno gli appare una inutile perdita di tempo, di verbosa maniacalità del puntuto Paul. Il chitarrista in una sala vuole suonare e vuole che tutto sia funzionale al suo ruolo. Verso la fine sembra pronto un’altra volta ad andare a comprare le sigarette, sfibrato dal facciamo-non facciamo lo show, George, interpellato, dice: “io voglio solo suonare”, favorendo alla fantasia dello spettatore la prosecuzione per turpiloquio pensato e trattenuto grazie solo alla natura british. La distanza, insomma, si quantifica nell’incapacità del chitarrista di non suonare lo strumento mentre altri parlano; a volume bassissimo non può non muovere le mani per uno strumming; quando messo a tacere, continua a muovere la mano sinistra per ripercorrere scale, arpeggi, riff, temi. E’ qualcosa che supera il chitarrista, quella di non saper star fermo con lo strumento addosso, ne marca la differenza, sarebbe testimonianza di una qualche iperattività se non fosse, piuttosto, una mania fatta di ansia e sotterraneo narcisismo (v. ult. capoverso).



La rivalità. La cosa peggiore che può accadere a una lead guitar in un gruppo è un’altra lead guitar nel gruppo. Che è solo un po’ meno lead, ma insidia, mordicchia, infastidisce. Se Harrison è il chitarrista del gruppo e il chitarrista fa il chitarrista John sa indubbiamente mettere le mani sullo strumento, conosce tecnica e posizioni, la suona con feeling ed è un po’ l’involontario bulletto, che non cura volutamente il disagio di George; anzi – ad amplificatore spento – fa continuamente trick per vedere come reagisce l’allampanato compare. E come gongola quando può, con tutta la crudele ironia dal volto angelico, concedere un’audizione al suo pezzo, derubricandolo a Harrisong. Il solismo sullo strumento di Lennon non è mai stato così forte. Troppa pressione in George, anche per questo, probabilmente, prende e se ne va; che ci fa una lead guitar  se non può far sempre la lead guitar?

Il polistrumentismo. Se c’è una cosa che un chitarrista non è, è la vocazione al polistrumentismo. E non è affatto un segno di limite, anche se potrebbe esser letta così. No, è che il chitarrista ha talmente tante di quelle rogne e difficoltà sul proprio strumento che non può davvero concedersi il lusso di suonarne altri, perché il chitarrista non è uno che strimpella, ma fa il chitarrista. Al limite, se proprio manca il basso, può metter su le toniche, piazzare dei tondi ortogonali e retti per centrare l’equilibrio di un brano. Ma il basso ha due corde in meno e quelle che ha sono grandissime e causano calli sproporzionati ai calli già formati da nylon di ben più ridotta misura. E poi il piano, ma per carità. Se Paul svolazza allegramente tra honky tonk e blues, John ha una discreta indipendenza che gli consente di suonare ogni sua idea, Ringo, pure, da buon batterista conosce le regole armoniche dalla tastiera, Gerge no. Perché è un chitarrista, il suo dannato strumento armonico ce l’ha già, non ne ha bisogno, anzi … i chitarristi vedono sempre con un ghigno di fastidio quei tasti bianchi e neri, schiacci un tasto ed esce la nota, mica quella rogna della chitarra. Tse’. E infatti, costretto, certo che sa fare due cose al piano, ma si limita a triadi senza rivolti, tre note brutalmente messe lì a capire se s’è in tono maggiore o minore. Un chitarrista sa.

L’incomprensione/afasia. All’ennesima tiritera di un tiranno garbato come Paul, alla meticolosità con cui cerca di raccontare cosa si aspetta esattamente da una nota o da un passaggio, George sbotta. “Faccio quello che ti pare, suono quello che vuoi”, country, folk, blues, jazz … dimmelo e lo faccio. È quello il modo in cui, finalmente, il chitarrista si smarca dal resto del gruppo, proclamando la propria versatilità, la propria competenza in termini di linguaggi diversi; altro che quella mezzasega di John, che fa sempre le stesse cose. No, il chitarrista si mette quasi in un angolo, pensa ai suoi problemi, perché nessuno lo comprende. Una nota, alla stessa altezza, la puoi trovare in almeno tre punti del manico, ma il chitarrista sceglie quella che suona meglio e al mondo appare indifferente. E poi lui sì che avrebbe le idee vincenti, però – ecco – se grandemente Paul, ma anche John, sono degli oratori ipnotici, bravissimi nel sedurre, strigliare, arringare, divertire, il chitarrista, nonostante i falsi miti invalsi nel tempo, è una sorta di disadattato, incapace di sostenere con pari arguzia. Cade nell’afasia. Se malauguratamente interviene, le sue parole non suonano altrettanto rotonde e sferzanti. Colpa della dannata chitarra, eppure…

Individualismo. Eppure il chitarrista scrive delle canzoni bellissime, molto chitarristiche perché quello sa fare. John lo prende in giro? E lui scrive I me mine. E la canta in un modo spaziale. Però, alla fine farà nell’album molti meno soli di quelli di cui avrebbe avuto voglia. Ed ecco la soluzione: vado per conto mio. Lo dice chiaro chiaro ai suoi colleghi: ho scritto un sacco di belle canzoni, avrei potuto darle a chiunque e invece, sapete che c’è? me le canto e me le suono io. Ecco, quello che da un’analisi superficiale potrebbe esser letta come una spinta all’individualismo, è in realtà il lato più intricato del chitarrista, che vive di narcisismo. E il primo sintomo di questa affezione, il più tenero, si direbbe, è l’atteggiamento svalutante verso le proprie capacità. Ecco perché osanna in Clapton uno che sa suonare con la testa, creando dei soli melodicamente perfetti con una testa e una coda e proclama che lui non sarebbe in grado. In realtà può, lo sa, oppure no. Ma intanto, il senso di incomprensione unito al narcisismo lo portano a volere altro, a far da solo, a trovare finalmente un luogo di pace dove poter esser quello che è: un chitarrista.

Calici in su per George Harrison! Cin!