BERLINO – Cancel culture, multiculturalismo, neo-linguaggio gender, politically correctness, femminismo ideologico, politica identitaria, frontiere aperte, vaccinazione obbligatoria, antirazzismo militante, antifascismo con 70 anni di ritardo. Il programma dei Linke, la sinistra tedesca, è tutto qui. Una sequenza di imperativi ideologici che non tollerano discussioni e che sottintendono la superiorità morale di chi li enuncia e la bassezza di chi ne viene istruito. Detto questo l’articolo potrebbe anche terminare qui, se non fosse per una domanda. Ovvero: a che serve avere Maradona in squadra se poi lo lasci sempre in panchina?
Il partito die Linke è il diretto discendente del Sed, il Partito dell’Unità Socialista, organo direttivo e onnipotente dell’ex Germania comunista. Con la sua fondazione nel 2007, la sinistra tedesca prova a superare il blackout esistenziale scatenato dal crollo del muro di Berlino. Inizialmente la cosa sembra riuscire soprattutto nei territori orientali, dove la nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio” vale un 9% di consensi, ma con l’emergere dell’AfD proprio nelle regioni dell’est le cose peggiorano. Da notare che per quella data, siamo nel 2015, la sinistra aveva già abbandonato il suo elettorato di riferimento sostituendo il conflitto sociale con quello identitario. Non più lotte per il lavoro, non più sostegno ai ceti popolari e per una redistribuzione più giusta delle risorse, ma appoggio incondizionato ai gruppi identitari, siano essi culturali, religiosi o di genere, in conseguenza di uno spostamento del concetto di sfruttamento. Lo sfruttato non è più il lavoratore, il piccolo commerciante, il disoccupato, in conseguenza dei rapporti di forza di una società capitalista che premia chi ha di più, ma il migrante, l’omosessuale, la donna, il nero in conseguenza di un razzismo e sessismo endemico all’uomo bianco.
Per combattere il peccato originale del razzismo bisogna cancellarne tutti i simboli e i nomi che riconducono ad esso e tengono in soggezione le minoranze etnico-culturali. Da qui le battaglie per la ridenominazione di strade e piazze con nomi proibiti come via dei Mori, ad esempio, che contengono accenni al passato colonialista, o la cancellazione di termini che potrebbero risultare offensivi per questa o quella minoranza. A questo si aggiunge la furia iconoclasta contro opere d’arte e monumenti del passato non in linea con la sensibilità contemporanea. Tutto lo sforzo politico dei Linke negli ultimi dieci anni si è concentrato su questo. Controllo ossessivo del linguaggio e accusa di razzismo a chiunque non rispettasse il comandamento del politicamente corretto. Il risultato: voti dimezzati. Dal 12% delle politiche del 2009 si passa al 5% delle europee del 2019 e i pronostici per le politiche 2021 non superano il 6%.
Quando le cose vanno male, un modo per impedire che vadano peggio è tornare alle origini. A volte funziona, a volte no. Il richiamo della foresta dei Linke si chiama, manco a dirlo, Revolution! Così la candidata numero uno alle politiche 2021, Janine Wissler, punta tutto sul rosso e si scaglia a testa bassa contro il capitalismo disumano e crudele. “L’attuale società senza classi non è superabile per via parlamentare” ha esclamato leninisticamente in un recente discorso alle masse post-moderne, “perché nella storia il vero progresso, quello concreto e tangibile, è stato raggiunto solo con la rivoluzione!”.
Tenendo conto che l’elettorato di riferimento dei Linke ormai è costituito perlopiù da bobo, vale a dire borghesi bohemiens che vivono in appartamenti chic lontani dai tumulti delle periferie, con ottimi stipendi, pochi problemi economici e con tutto il tempo libero del mondo per riflettere sugli arrembanti problemi del fascismo, del razzismo e del maschilismo innato nell’uomo bianco, il concetto della Revolution non è arrivato benissimo. Però fa chic e mantiene sempre un certo fascino, a patto che riguardi solo quelli che vivono nelle periferie s’intende. Certo che quando l’aspirante rivoluzionaria Wissler ha definito le occupazioni delle case un mezzo legittimo di lotta contro il caro affitti, dichiarandosi a favore degli espropri forzosi, i bobo devono aver fatto un saltino sulle loro Chesterfield. Morale, i sondaggi languiscono intorno a un triste 6% e da lì non si schiodano.
Si diceva del Maradona costretto in panchina. Il suo nome è Sahra Wagenknecht, nata a Jena nel 1969, deputata del Parlamento tedesco per i Linke dal 2009. Sahra Wagenknecht ha due caratteristiche che ne fanno una fuoriclasse della politica: comprende la realtà e non è ipocrita. In altre parole, è intelligente e ha coraggio. Le sue posizioni in tema di migrazioni – che a suo avviso vanno regolate in modo rigoroso –, sulle politiche identitarie – che considera un tema dettato dall’ipocrisia dei ceti medio alti –, e sulla politica sanitaria durante la pandemia – che considera fondata su mezze verità e ambiguità scientifiche –, fanno venire l’orticaria agli altri dirigenti del partito. In campo economico non si scaglia contro il capitalismo cattivo e disumano ma parla di socialismo creativo, che è molto simile all’idea che aveva l’economista italiano Federico Caffè di un sistema dove lo Stato garantisce i bisogni primari e funge da calmiere in campo finanziario per impedire speculazioni pericolose.
Nessuna Revolution proclamata ai quattro venti dunque, ma buon senso e sale in zucca. Con le sue proposte pragmatiche la Wagenknecht ha ripreso molti voti persi nei territori orientali e c’è da credere che senza di lei i Linke sarebbero abbondantemente sotto la soglia del 5%. Quindi, per coerenza alla linea, il partito ha visto bene di espellerla. Le accuse: vicinanza ideologica con la destra in materia di immigrazione e neoliberismo conservatore in materia economica. Il procedimento è terminato in un nulla di fatto, ma ha relegato in panchina la Wagenknecht che non è una protagonista di questa campagna elettorale.
La speranza dei Linke adesso si chiama Olaf Scholz. L’odiato nemico socialdemocratico di fede neoliberale ha fatto sapere di non disprezzare una coalizione Spd-Linken + verdi e qualcosa, e per far capire che fa sul serio ha lanciato sul tavolo l’aumento del salario minimo. Non sarà la Revolution, ma è pur sempre più di quanto i Linken possono sognare di ottenere stando all’opposizione o addirittura fuori dal Parlamento. Della serie pochi maledetti e subito, tantopiù che nulla vieta di continuare a ciarlare di Revolution standosene al calduccio nel governo.
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