Non mancano le sorprese sotto i cieli della pandemia. Kweichow Moutai, premiata ditta di bevande alcoliche, è diventato il titolo più capitalizzato della Borsa cinese. Con un valore di 1.830 miliardi di yuan pari a 230 miliardi di euro, più della metà dell’intera Piazza Affari. Grazie ai consumi boom (+13% nei mesi primi mesi dell’anno) Moutai ha scavalcato alla Borsa di Shanghai il valore della Icbc, il colosso bancario di Stato. Ma non si scandalizza nessuno: la gloria del Moutai, forte liquore biancastro con una gradazione di 35 gradi (ma la versione strong arriva a 55 gradi) risale alla più pura tradizione maoista.



I Generali dell’Armata Popolare lo usavano per disinfettare i fucili oltre che per i brindisi. Come lo stesso Chou En-Lai raccontò alla delegazione Usa sbarcata in Cina nel 1972 al seguito di Nixon. In quell’occasione Henry Kissinger, bicchiere in mano, rivolto agli ospiti cinesi disse: “Con un Moutai in corpo possiamo risolvere qualsiasi problema”. Chissà, può essere un’idea. Per ora, non resta che prender atto che un liquore, ai tempi della pandemia, può valere di più di banche, tecnologia, civile e militare, e dell’industria.



Ma la vera sorpresa, meno divertente ma più significativa, riguarda l’Unione europea. L’Esma, l’organo di controllo europeo dei mercati, ha annunciato di aver avviato un’indagine sulla Bafin, l’autorità di mercato della Germania, che assomma le competenze della Consob e della Vigilanza bancaria. L’inchiesta dovrà far luce su errori, omissioni (o altro) legato allo scandalo Wirecard, la società tedesca dei pagamenti digitali avviata al fallimento dopo che è emerso un buco di 1,9 miliardi di euro.

I fondi, che avrebbero dovuto esser posteggiati presso due banche filippine, in realtà non sono mai esistiti nonostante i controlli effettuati. Ma solo sulla carta. Uno scandalo che ricorda da vicino le vicende della vecchia Parmalat. Ma con un’importante differenza: le autorità italiane, seppure in ritardo, a suo tempo intervennero con energia per dipanare la complessa trama truffaldina non appena emersero i primi sospetti che i soldi non esistevano. Al contrario, la truffa tedesca è andata avanti per almeno sei mesi dopo che il Financial Times aveva denunciato le gravi irregolarità di Markus Braun, l’ex finanziere prodigio austriaco che ha attratto capitali da mezza Europa, anche per la tranquillità che discendeva dalla lente della Bafin. Ma le autorità tedesche, lungi dall’indagare su Wirecard, denunciarono i giornalisti del Financial Times, costretti a difendersi dall’accusa di aver fatto lo scoop per speculare in Borsa.



Un atteggiamento sospetto se non doloso che ha spinto l’Esma, che ha sede a Parigi, ad avviare l’indagine su una delle più autorevoli istituzioni d’oltre Reno, per giunta nell’imminenza del semestre a guida tedesca dell’Unione europea, l’ultima grande missione di Angela Merkel.

Non è certo il caso di emettere verdetti prematuri, anche se si fa fatica a dimenticare la diffidenza che le autorità d’oltre Reno hanno spesso riservato alla finanza italiana. Ma merita rilevare che stavolta le autorità comunitarie hanno saputo imporsi con il giusto vigore a quelle nazionali, nuovo segnale di una vitalità della comunità di Bruxelles, vedi i programmi Pepp, Sure e Recovery Fund, che è la gradita novità di un anno difficile. Merita un brindisi con il Moutai.

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