Compie vent’anni la virata stilistica che ha caratterizzato la seconda parte della carriera del regista statunitense Gus Van Sant. Il suo film Gerry, infatti, girato nel 2001, veniva presentato nel 2002 a due delle più importanti rassegne cinematografiche indipendenti, il Toronto Film Festival e il Sundance Film Festival. Il film uscirà poi in poche copie nel 2003, rimanendo inedito in Italia. E se ne capiscono le ragioni: Gerry è infatti un film sperimentale al limite dell’avanguardia pura, volutamente vuoto di narrazione tradizionale – perché pieno di altro. In un Paese come l’Italia – ma non solo – avrebbe collezionato non più di una ventina di spettatori in tutto. Fatto comprensibile dal punto di vista del pubblico, che giustamente ha voglia di storie comprensibili, belle avventure e personaggi fascinosi in cui immedesimarsi. Un po’ meno dal lato dei distributori e gestori di sale, i quali dovrebbero trovare il modo di trattare il cinema non solo come un puro prodotto dell’industria dell’intrattenimento, prevedendo appositi spazi anche per chi propone dell’altro.
Tra questi ultimi annoveriamo certamente Gus Van Sant. Artista poliedrico, dedito da giovane all’arte visiva, tra gli anni Ottanta e i primi Novanta realizza diversi medi e cortometraggi di cinema indipendente, diventando uno dei registi più conosciuti e apprezzati del segmento. Trasferitosi a Hollywood, diventa poi autore di film narrativi mainstream di buono stampo, tra i quali spiccano Will Hunting – Genio Ribelle (1997), il remake dell’hitchcockiano Psycho (1998) e Scoprendo Forrester (2000). Dopo aver assistito da vicino alla tragedia delle Torri Gemelle, cambia drasticamente direzione, imponendosi uno stile atto a conservare intatti spazio e tempo delle azioni, quindi incentrato sul massiccio utilizzo del piano-sequenza, per meglio cogliere il quotidiano nel suo caotico divenire.
A questo punto della carriera, in parte tornando alle origini e in parte spinto dalla necessità di riflettere sul valore dell’immagine di finzione cinematografica dopo quanto visto in tv nel fatidico nine-eleven, si inoltra sul terreno dell’avanguardia. Senza falsi pudori né la minima preoccupazione per il botteghino, realizza Gerry. Film, come detto, dove è la particolare forma a dare senso al tutto.
Due amici (Matt Damon e Casey Affleck, autori col regista della sceneggiatura) arrivano in auto fino a una zona desertica, lasciano l’auto e si inoltrano a piedi per cercare una certa “cosa”, non precisata e poi dimenticata nello scorrere del film. I due vagano nel deserto chiamandosi a vicenda col nomignolo Gerry, si separano e poi ancora si ritrovano, passano dei giorni non si capisce quanti, nei quali non succede nulla (in circa 100 minuti di film i dialoghi ne coprono a mala pena 10). Poi uno dei due strangola l’altro, senza ragione apparente. Torna verso la strada, trova un passaggio in auto e ritorna alla civiltà. Il tutto guardato con lunghi piani sequenza, sia a seguire i due Gerry che a inquadrare un orizzonte desertico, aspro, lontano e indefinito.
Il film appare allora come la puntuale messa in scena di una forte metafora: dopo lo shock mediatico dell’11 settembre, l’immagine narrativa ha perso i suoi orizzonti, deve andare lontano per ritrovarsi, uccidere sé stessa ricreandosi, e poi tornare nella città (del Cinema) con nuove storie e nuovi modi per raccontarle.
Infatti, i due film successivi sono stilisticamente i gemelli di Gerry, ma entrambi narrativi e ispirati a storie vere. Con Elephant (2003), capolavoro che si aggiudica la Palma d’Oro a al Festival di Cannes, Van Sant rielabora la strage avvenuta alla Columbine High School nel 1999. Mentre in Last Days (2005) racconta gli ultimi giorni di vita del musicista Kurt Cobain.
In entrambi il regista gira con lo stile già radicalmente rivisto e messo a punto in Gerry, secondo la sua nuova idea di cinema: uso massiccio del piano sequenza, situazioni narrative dilatate e ripetute, sovrapposizione dei piani temporali, diversi punti di vista per giungere allo stesso luogo spazio-temporale. Il tutto per dire con grande forza visiva: ho perso le coordinate (Gerry), non so più bene come guardare al mondo contemporaneo, alle persone che lo popolano, cosa dire sulle cose che vi accadono (Last Days), non capisco da dove sbuchi il male che c’è nel mondo, perché degli adolescenti massacrino dei propri coetanei apparentemente per gioco (Elephant), non so dare giudizi sui buoni e sui cattivi, non capisco più chi siano gli uni e chi gli altri.
Gerry si segnala allora come un coraggioso tentativo, riuscito in larga misura, di filmare il mondo contemporaneo secondo modalità che obbligano lo spettatore a confrontarsi con la propria incapacità di capirne il senso. Avanguardia ma non troppo, quindi, poiché quando essa si confronta con soggetti concreti e storie riconoscibili diventa arte cinematografica alla portata di tutti. Almeno per quelli che non si accontentano dei vari Checchi Zaloni che popolano il panorama italiano.
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