È sempre difficile, angoscioso, stare di fronte a una tragedia. Si avverte solo impotenza di fronte a un orrore irreversibile, incontrastabile, insensato. Si vorrebbe solo tacere, far spazio al silenzio. Eppure il silenzio non è mai vuoto, non dà tregua all’inquietudine, al senso di sgomento che ingombra inevitabilmente il cuore.



Ieri mattina siamo rimasti sconvolti apprendendo la notizia dei tragici fatti di Torremaggiore, della violenza forsennata di Taulant Malaj che ha ucciso a coltellate la figlia Jessica, sedicenne che si è intromessa a far scudo alla madre, e ha ferito a morte il presunto amante di sua moglie. Una vicenda agghiacciante, segnata da una spietata determinazione: “Li ho macellati e non ho ancora finito” dice Malaj in un video da lui stesso prodotto filmando i corpi delle vittime di fronte alla moglie affranta, e lanciando insulti e minacce a lei e al bambino di 5 anni scampati alla mattanza.



La tentazione di archiviare l’orrore, di cercare una via di fuga che almeno distolga dall’immedesimazione con quelle esistenze dilaniate, grondanti di sangue e disperazione, si affaccia fra i pensieri in un elenco scomposto e labile di supposizioni: la follia, il disadattamento sociale, l’incompatibilità fra modelli culturali diversi che scatena violenza, la crisi dei legami…

Le piste di analisi si affollano nella mente, ma costruiscono ragnatele fastidiose e inconsistenti, utili solo a offuscare la vista, a sviare lo sguardo dal dramma, dai volti delle vittime. Già, le “vittime”, che non sono solo le due persone che hanno perso irreparabilmente la vita, ma comprendono anche i superstiti, in primis la madre Tefta e il suo piccolo, scampati alla morte e precipitati in un inferno. Lo stesso inferno, se non più atroce, che del resto si apre come una voragine di brutale insensatezza sotto i piedi dell’autore della strage.



Non possiamo distrarci, insomma, lenire alla svelta la profonda ferita aperta da una notizia come questa, purtroppo non l’unica a documentare atroci delitti. Una notizia che ci riguarda, ci chiama in causa e potrebbe costringerci a lasciare da parte altre opinioni e commenti, per mettere a fuoco il fulcro, il fattore essenziale di ogni agire umano. Le nostre azioni, anche quelle che giudichiamo istintive, hanno una molla legata ai nostri desideri e intenti, a un motivo che urge, promuove e decide la nostra mobilitazione: in ogni agire, da quello più sviato e deleterio a quello orientato al bene, siamo posti di fronte a un bivio, a una scelta di campo che decide di noi, del nostro destino e di quello del mondo. “Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male”: sono parole del Deuteronomio (30,15) che mettono in luce l’esigenza di attraversare la vita non brancolando nel buio accecati dall’ottusità delle proprie presunzioni, ma riconoscendo una dipendenza da Altro da sé, da un’origine che orienta a un cammino di realizzazione.

Oggi proprio la distinzione fra il bene e il male sembra subire una sorta di annebbiamento: la consapevolezza della libertà è spesso fragile, ancorata a proprie percezioni soggettive e fuggevoli più che a un itinerario di conoscenza di sé stessi, di verifica di quanto la propria libertà si riveli efficace nell’incremento del bene proprio e altrui. È impressionante quanto nitida appare la raffigurazione di questa dinamica nella tragica vicenda di Jessica, che agisce d’impeto, interponendosi fra il padre armato di un coltello da cucina e sua madre contro la quale si stava avventando. La sua forza istintiva è potente, non lascia spazio a indugi, a calcoli, riflessioni… Eppure anche il suo gesto impulsivo e incurante del rischio, forse persino ingenuamente confidente nel fatto che il padre avrebbe probabilmente fatto un passo indietro, era un gesto carico di una decisione, di una propensione al bene.

In questo tempo di relativismo l’agire umano sembra segnato dall’indifferenza, da una coscienza labile, poco consapevole di quanto ogni nostro atteggiamento possa avere un peso determinante, dirimente, rispetto a quanto accade attorno a noi. E anche la libertà sembra sempre più preda di meccanismi, tendenze, mode… che affievoliscono persino il desiderio di felicità, l’anelito alla libertà autentica. La vera ignoranza coincide con la dimenticanza di sé stessi, con l’alienazione dal proprio desiderio di vita buona da alimentare secondo una prospettiva che va ben oltre la misura angusta e deludente delle nostre mire, di un potere disancorato dal nostro stesso cuore.

“Soprattutto non mentire a te stesso – si legge ne I fratelli Karamazov –. L’uomo che mente a sé stesso e dà ascolto alla propria menzogna, arriva al punto di non riuscire a distinguere più nulla di vero né dentro di sé né attorno a sé, e quindi perde tutto il rispetto per sé stesso e per gli altri. E senza rispetto, cessa di amare”.

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