Nei giorni scorsi è stata pubblicata la versione aggiornata deIl’Allianz Risk Barometer 2022. Il report viene realizzato intervistando a livello globale i CEO di diverse aziende con l’obiettivo di misurare le minacce avvertite dalle imprese ed è un valido ausilio per i Risk Manager. Quest’ultima è una figura che ha il compito di individuare i potenziali rischi cui un’azienda è esposta e nel contempo ha il compito di proporre, una volta valutati gli stessi, le migliori linee di azione per ottimizzare la loro gestione, alla luce della linea strategica scelta dal top management e delle capacità finanziarie dell’azienda.
Se vogliamo l’identificazione dei rischi è strettamente legata o assimilabile alla visione politica che un Governo nazionale deve avere affinché nel lungo periodo possa garantire un uso efficiente delle risorse, il benessere e la salute dei cittadini e una crescita economica duratura.
La pandemia, evento sicuramente eccezionale, ha dimostrato che in Italia, ma non solo, è mancata una precisa individuazione di un rischio possibile. La prova è data dalla mancanza di un piano di contrasto di un evento pandemico. Si è detto che esisteva ma non era aggiornato, ma si è detto anche il contrario. Ciò che è accaduto nei giorni immediatamente prossimi allo scoppio della pandemia, purtroppo registrato anche in questi ultimi due anni, sta dimostrando che, a livello governativo, un approccio volto alla valutazione del rischio continua a mancare.
Ritornando ai risultati del report può apparire sorprendente che il rischio pandemico si trovi solo al quarto posto. In realtà i manager hanno chiarito il perché. La pandemia dura da due anni per cui le aziende ritengono di averne preso le misure. Sorprende invece che uno dei rischi che preoccupa è non trovare personale qualificato. Il rischio è avvertito dalle aziende a livello globale, ma lo è ancora di più in Italia dove la presenza diffusa di piccole e medie imprese accentua la difficoltà di reperire personale qualificato spesso attratto dalle grandi aziende capaci di offrire maggiori salari e, dunque, capaci di “attivare una concorrenza sleale”.
Al di là di questa ultima semplificazione, ciò che deve destare attenzione è il mancato presidio da parte della politica delle emergenze che si sono palesate. Nella prima fase della pandemia ci si è accorti che il nostro sistema sanitario rischiava di andare in crisi per la mancanza di terapie intensive e per questo ci si è affrettati a recuperare, all’estero i ventilatori necessari. Con il passare del tempo si ci è accorti che le terapie intensive, ma più in generale il sistema sanitario, erano carenti di personale medico e paramedico. Si è cercato di porre rimedio a questa carenza “attingendo”, spingendo sulla maggiore sicurezza del lavoro statale, dalle strutture private operando una “concorrenza” nei confronti del sistema privato al quale la cura delle persone è stato “delegato” più o meno diffusamente in Italia.
Il passare dei mesi e la ciclica recrudescenza della pandemia scandita dal manifestarsi delle varianti rende evidente che il solo allestimento di un maggior numero di terapie intensive non risolve il problema. Il quale, infatti, non è rappresentato solo dalla mancanza di attrezzature utili ad allestire un numero ancora maggiore di terapie intensive, ma è rappresentato dalla “assoluta” mancanza di personale qualificato: anestesisti e personale di supporto alle rianimazioni. La mancanza di queste figure spesso manifestate a gran voce dai Presidenti di Regione ma non solo è stata giustificata in vario modo. Si è detto che i nostri giovani medici sono attratti dai migliori stipendi offerti dall’estero. Già questa considerazione avrebbe dovuto far riflettere sulle ragioni che portano il nostro sistema a sprecare le risorse dedicate alla formazione valorizzate poi altrove ai nostri danni. È emerso altresì che in realtà la nostra Università non è in “grado” di garantire la formazione del numero giusto di medici e di personale sanitario che invece serve al nostro Paese. Sono anni ormai che le facoltà sanitarie sono a numero chiuso. La barriera che si è creata è stata giustificata dalla necessità di ridurre i costi e per evitare che l’università (solo quelle sanitarie?) siano un parcheggio. La pandemia, ma era evidente anche prima, ha dimostrato che il sistema del numero chiuso ha fallito e la politica in questi due anni non ha trovato il tempo di gestire il rischio. Il numero chiuso è rimasto per cui per molti anni ancora avremo la certezza che la formazione del personale sanitario sarà il rischio che non avremo gestito.
Allo stesso modo rimane trascurato il sistema scolastico. Siamo stati l’unico Paese che per lungo tempo ha chiuso le scuole puntando sulla DAD. Non si è trovato il tempo si organizzare la scuola, anzi si è provato richiuderla per fronteggiare la diffusione di omicron senza puntare alla riorganizzazione del sistema scolastico. Al momento l’unica strada per garantire una migliore formazione più vicina alle esigenze delle imprese è stata delegata al sistema degli ITS. Dunque la politica ha avvertito il rischio, ma non ha operato come dovrebbe fare un risk manager non avendo fatto nulla per migliorare la formazione dei giovani.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI