Già ci aveva stupito Gherardo Colombo quando all’Huffington Post lo scorso maggio proponeva l’abolizione del carcere, ma nell’intervista odierna su “Il Dubbio” quel concerto-provocazione viene contestualizzato, spiegato e se possibile ancora più arricchito. Certo fa specie sentire uno degli ex magistrati di punta del pool di “Mani Pulite” (con Di Pietro, Borrelli e Davigo), tra le esperienza di maggior giustizialismo della storia italiana, parlare di “errore nella gestione del carcere” o ancora di “ergastolo? Ne ho dato uno solo nella mia vita e sono stato male”. Eppure da tempo, quando ormai nel 2007 lasciò anzi tempo il ruolo di magistrato (14 anni prima della pensione) Colombo gira scuole e teatri per spiegare ai ragazzi la democrazia, le regole e la giustizia. «Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, cioè che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole. Ma in 33 anni di magistratura, dal 1974 al 2007, progressivamente ho cambiato idea su questo punto», confessa l’ex pm all’ottimo Nicola Campagnani sul “Dubbio”.
GHERARDO COLOMBO E IL CARCERE DA ABOLIRE
Gherardo Colombo è sempre più convinto che l’articolo 27 della Costituzione (che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità) sia il vero punto dirimente dell’intera vicenda: «sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà». Ma il carcere come esperienza in Italia non sempre è da “abolire” come pure richiede oggi Colombo: «Ci sono delle eccezioni: qui in Lombardia abbiamo Bollate, che è un carcere particolare rispetto a quasi tutte le altre carceri che ci sono in Italia. Però generalmente il carcere è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla».
Per avere un’effettiva rieducazione umana con l’esperienza di detenzione mancano al momento diversi elementi centrali: «manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al “senso di umanità”». Gherardo Colombo dopo l’esperienza traumatica di Tangentopoli chiede 30 anni dopo un carcere più umano, ovvero «in cui tutti i diritti della persona, che non confliggono con la sicurezza della collettività devono essere garantiti. Ma proprio tutti. E possono essere ridotti e ridimensionati soltanto quei diritti il cui esercizio impedisce la sicurezza della collettività, che sono però molto pochi. Se così fosse nel nostro Paese il carcere sarebbe chiamato dall’opinione pubblica un albergo a cinque stelle».
Non ha senso rispondere al male commesso infliggendo ulteriore male («uno più uno fa due, non zero»), mentre ha molto più senso una giustizia “riparativa”: «Per evitare che una persona faccia male è necessario in primo luogo che sappia che quel comportamento provoca dolore […]. Con la mediazione di una persona che se ne intende, la vittima e il responsabile sono accompagnati lungo un percorso che si conclude con un incontro, che serva al responsabile a rendersi conto del male che ha fatto, senza per questo essere distrutto dai sensi di colpa, e alla vittima di ripararsi del male che ha subito e di riacquistare il senso di dignità che aveva smarrito proprio per il male che era stato inferto».