Il giallo di Saddam Haftar ha una soluzione molto semplice, e si chiama realpolitik. A carico del figlio minore del rais della Cirenaica c’è un mandato di arresto spiccato dalle autorità spagnole, ma l’Italia, quando Saddam il 21 luglio si trovava a Napoli Capodichino diretto in Libia, non lo segnala e disattende le procedure. Se il nostro Paese lo avesse segnalato o trattenuto, spiega Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e di InsideOver, a quest’ora staremmo sicuramente parlando di un incremento repentino dei flussi migratori provenienti dalla Cirenaica.



Il “caso Haftar” è solo l’ultimo episodio significativo del fatto che con tutta la sua buona volontà l’Italia non può orientare gli eventi libici. Ma nemmeno gli Usa, la Russia e la Turchia riescono a farlo. È l’arma segreta del disordine libico.

Perché Saddam Haftar era in Italia?

Saddam e il fratello maggiore Khaled sono in Italia molto spesso. Il campionato di calcio libico si è giocato in Italia, ha vinto l’Al Nasr di Bengasi di cui è proprietario Khaled Haftar. Che però non è stato ammesso sul palco a ritirare il premio, per non fare un torto a Tripoli e al suo rappresentante, anch’egli presente. A quel punto Khaled ha ritirato i giocatori, e Tajani e Abodi sono rimasti con i premi in mano. Questo per dire che i figli di Haftar sono come lui, impulsivi, inclini agli strappi politici.



Per quale motivo Khalifa e Saddam Haftar hanno chiuso gli impianti di Sharara?

Le autorità spagnole hanno spiccato un mandato di arresto per Saddam Haftar in quanto coinvolto in un contrabbando di armi intercettato dalla polizia spagnola. Per ritorsione, Saddam – sicuramente su indicazione del padre – ha parzialmente chiuso il giacimento, gestito da una joint venture di cui fa parte la spagnola Repsol. Ma non è una novità.

Vale a dire?

Da quando il padre ha il pieno controllo della Cirenaica e del Fezzan, dove si trova il giacimento, che si trattasse di rilanciare a livello politico, o di fare uno sgarbo a Tripoli, o di strumentalizzare le proteste dei lavoratori o degli abitanti della zona, lo ha bloccato più volte.



Resta il fatto che le autorità italiane non hanno fermato Saddam a Napoli Capodichino. Ragioni di realpolitik?

Ovviamente sì, non c’è altra spiegazione. Dalla fine dell’unità libica, chiunque ci sia a Chigi – Renzi, Conte, Draghi, ora Meloni – l’Italia fa una politica dell’equidistanza: riconosce il governo di Tripoli, ma dialoga anche con Haftar.

Se avessimo segnalato o fermato Saddam?

Avremmo subito visto aumentare i flussi di migranti dalla Cirenaica. E sarebbe stata solo la prima di una serie di “armi” improprie subito impiegate contro l’Italia.

Questa realpolitik ha una strategia?

Non direi, mi sembra improntata a una veduta corta. È comunque difficile fare altrimenti.

Puoi spiegarci meglio?

Haftar potrebbe non avere ancora molti anni davanti a sé. Quando verrà a mancare, potrebbe iniziare una lotta per la successione. Dunque è difficile investire sul futuro, che non è affatto chiaro. Al tempo stesso, ciò che preme all’Italia è frenare le partenze, partecipare alla ricostruzione di Derna, in generale evitare problemi con Haftar e rimanere seduti al tavolo della Libia.

In altri termini, facciamo del nostro meglio, ma non possiamo determinare gli eventi.

Esatto. Ma se andiamo a vedere, nemmeno gli Stati Uniti riescono a farlo, nonostante Haftar sia cittadino americano e abbia vissuto per trent’anni in Virginia. Insomma, Washington non riesce ad avere una presa su Haftar. Non ci riesce neppure Mosca, che è sua alleata. Il problema si ripropone a Ovest: la Turchia è il principale alleato di Tripoli, ma non riesce a orientarne il governo unicamente verso gli interessi turchi. E sono tutti attori più forti di noi. Forse è proprio questa la vera risorsa della Libia: tanti attori si contendono l’influenza, ma nessuno riesce a essere decisivo.

Qual è, a tuo avviso, il bilancio della politica estera italiana in Libia, a 13 anni dalla guerra civile e dalla frantumazione istituzionale che ne è seguita?

Direi che è un bilancio a somma zero. Di positivo c’è il nostro attivismo a tutti i livelli, politico ed economico. Di negativo c’è una certa incapacità di incidere, che sconta probabilmente la mancanza di un quadro di insieme nel lungo termine. Le due cose si tengono.

Ma noi italiani chi siamo per i libici?

L’Italia, a prescindere dal governo, per la Libia è importante. Lo era ai tempi di Gheddafi e lo è ancora oggi, sia per Dbeibah che per Haftar. Abbiamo sempre portato tecnologia e know-how nel Paese, conosciamo il territorio come nessun altro. Per tornare al campionato, gli striscioni sono in italiano. Dettaglio marginale, ma significativo.

Sicuro che i governi non facciano differenza?

Meno di quanto si pensa. Non avendo i libici una tradizione democratica, vedono un avvicendamento di vari premier, il cui colore, tutto sommato, è secondario.

Tra le tante crisi aperte, da quella dell’unipolarismo americano al Medio oriente e all’Ucraina, vediamo che il Mediterraneo, il “fronte Sud” dell’Ue e della Nato, tutto sommato, tiene. Fino a quando?

Il fronte Sud, e soprattutto il fronte a Sud del Mediterraneo, ha una particolarità: è composto da Paesi troppo importanti per fallire. Tunisia ed Egitto sono sul lastrico, ma vengono costantemente salvati o dai soldi dell’Europa o delle petromonarchie del Golfo; l’Algeria, nonostante molti problemi, esporta gas, ha introiti garantiti e per il momento è tranquilla; il Marocco è un Paese in crescita. Mentre a Sud del Sud, nel Sahel, c’è una situazione talmente ingarbugliata, brutta e tesa che nessun attore internazionale – Washington, Mosca, Pechino – può permettersi di poter far fallire i Paesi magrebini. Fino a che ci sarà questo equilibrio, per quanto precario, credo che il fronte Sud non sia destinato a implodere come successo da altre parti.

È anche il contesto del Piano Mattei.

il Piano Mattei riflette a suo modo il nostro impegno in Libia: è fragile, soffre anch’esso di una mancanza di prospettiva.

(Federico Ferraù)

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