Ti arriva di colpo, in una serata di gennaio, la notizia della morte di un vecchio, caro ma anche problematico amico, Giampaolo Pansa. E la notizia ti colpisce duramente, perché non era passato molto tempo dall’ultima telefonata in cui avevamo conversato a lungo, anche sulle tristi sorti che erano riservate a questo Paese.
Pansa era già un personaggio nel giornalismo italiano all’inizio degli anni Settanta, quando faceva l’inviato fisso a Milano per La Stampa e lo incontravi in tante occasioni, o veniva persino a trovarti nella redazione di piazza Cavour, all’Avanti.
Poi, personalmente, lo incontrai al Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone. Pansa fu ovviamente uno degli uomini di punta di quella stagione del Corriere, fino al momento in cui lasciò e si trasferì al gruppo Repubblica-Espresso.
Era nato nel 1935 a Casale Monferrato e nei suoi libri, in molti suoi scritti, ricordava la sua città, il ruolo che ebbero i suoi genitori sulla sua formazione. Si lanciò con coraggio nel giornalismo, abbandonando quella serenità di provincia dopo aver studiato ed essersi laureato con una splendida tesi, diventata famosa, sulla Resistenza.
Molti ritengono che ci siano stati due Pansa: il primo giornalista simpatizzante di sinistra, che picchiava duro sugli assetti di potere della Prima repubblica, e un secondo Pansa che, nella grande produzione libraria, rivelò, al di fuori del coro assordante di elogi, gli orrori della guerra civile italiana, anche quelli commessi dai partigiani, svelando retroscena che imbarazzavano e provocavano violente reazioni.
Quando Pansa presentava gli ultimi suoi libri, con il “triangolo rosso della morte” in Emilia, con le storie della donne fasciste maltrattate, veniva regolarmente contestato durante la presentazione e a volte doveva pure intervenire la polizia per calmare i “buonisti”.
Ma in realtà, anche se ci fu chi gli tolse il saluto per quello che scriveva, Pansa era rimasto sempre se stesso, sempre la stessa persona che scriveva quello che vedeva e quello che era venuto a sapere.
Fece colpi sensazionali, con la sua splendida penna, come l’intervista a Enrico Berlinguer, che gli dichiarò di essere più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto quello del Patto di Varsavia. Ma non fu mai tenero nei suoi giudizi con tutti i partiti, anche quelli di sinistra, anche con i comunisti e certamente con i socialisti. Era, se si può dire, un avversario duro di cui però rispettavi spesso quello che pensava.
In sostanza Pansa era un giornalista nato, un simpaticissimo e bravissimo “rompicoglioni”, come diceva spesso il più zelante tutore del pensiero dominante dell’epoca, quel Piero Ottone che fece il direttore a lui e a me.
Per comprendere il personaggio si possono fare alcuni esempi. Il Pansa di sinistra, pur in quell’atmosfera incandescente degli anni Settanta, scrisse subito che le “Brigate rosse erano rosse”, togliendosi dalla truppa della stampa progressista che, nei primi anni del terrorismo italiano, spiegava che c’erano le “cosiddette brigate rosse”, un’entità misteriosa quasi creata dai servizi segreti.
Un famoso giornalista, di fronte alla critiche, tolse il saluto a Pansa. Altri contestarono i suoi libri così come facevano gli estremisti nella sale che ospitavano le presentazioni e le relazioni di Giampaolo.
Era quindi sempre stato un unico Pansa, uno spirito libero, che spesso riconosceva anche i suoi errori e, con una prosa esplosiva, coinvolgente e graffiante, riusciva a scrivere di tutto e di più contro questo e quest’altro.
Durante gli anni del Corriere, ricordo la battaglia contro il comitato di redazione, spiccatamente di sinistra, che Pansa fece con Walter Tobagi, con Giorgio Santerini e con il sottoscritto. Vedeva con i suoi occhi, giudicava e scriveva nel modo in cui sentiva.
Anche quando in seguito, lui a Repubblica e io al Corriere, eravamo formalmente “nemici”, abbiamo avuto sempre un rapporto di grande amicizia e correttezza reciproca, permettendoci solo qualche battuta. Lui era anche divertente, ma sempre benevolo per la mia appartenenza politica, fin troppo manifesta.
In questo momento di dolore penso alla sua compagna Adele. Ricordo una telefonata drammatica, in cui mi spiegava la morte improvvisa di suo figlio Alessandro nel 2017. Mi disse: “Per favore non farmi piangere”. Ma aveva la voce rotta.
Altre telefonate riguardavano lo stato del Paese, gli auguri e i complimenti per la carriera di mio figlio e un’incredibile dichiarazione, a sorpresa, che mi fece quasi trasalire: “Sai, Gigi, su questo Paese, forse aveva proprio ragione Bettino”.
Ciao Giampaolo, che la terra ti sia lieve. Con un grande abbraccio.