Giampiero Galeazzi, scomparso a Roma a 75 anni (era nato il 18 aprile del 1946), era una presenza. Una presenza nella mia vita di giornalista ma non solo, prima sul campo, sui campi, dall’Olimpiade alla Coppa Davis, dal Ronald Garros ai tornei di tennis fino al calcio, nel calcio. Ma era una presenza vitale nelle lunghe serate condivise, nelle trasferte riempite di racconti, aneddoti, battute.
Giampiero era grande e grosso, un cervello fino perché capace di autoironia. E tra i giornalisti, vil razza dannata, pochi ne sono provvisti. Storico giornalista della Rai, aveva raccontato l’epopea del remo azzurro con la competenza di chi ai Giochi Olimpici era arrivato da atleta, nel 1968 a Città del Messico. Veniva da una famiglia di canottieri. Non acchiappò una medaglia, ma si immerse nell’olimpismo e ne comprese i valori e la storia. Aumentò la competenza. Ai suoi tempi, molti atleti passavano dallo sport al giornalismo. Ma come giornalisti, appunto, non come opinionisti. Giampiero aveva delle opinioni, ma se gli avessero dato dell’opinionista o del “talent” si sarebbe fatto una risata o avrebbe tirato fuori una delle sue battute.
Gli piaceva la prima linea. Lo ricordiamo con il cappello a falde larghe mentre insegue l’Avvocato Gianni Agnelli schivando i cumuli di neve nell’antistadio del Comunale di Torino, o fradicio d’acqua e spumante emergere con la camicia fuori dai pantaloni dallo spogliatoio del Napoli campione d’Italia nel 1987.
Era un giornalista che affrontava la professione, gli piaceva incontrare le persone, era diretto ma mai arrogante. Con lui ci siamo seduti a tavola, con lui abbiamo parlato di cibo, di sport, di vita, di persone. Era un narratore senza eguali. Oggi nessuno sa più raccontare, oggi tutti raccontano di se stessi. Giampiero sapeva mettere al centro gli altri, non faceva mai emergere il suo ego.
Le sue telecronache arrochite del canottaggio e della canoa, le potete rivivere, con tutte le emozioni che ci trasmettono, che vi trasmetteranno, su Youtube. “E andiamo a vincere” era il suo mantra per i fratelloni Abbagnale e il timoniere Peppiniello Di Capua. Era un grande perché sapeva ridere di se stesso, ma forse ha sofferto per qualche giudizio negativo, per chi non sapeva comprendere il suo valore. “Il tempo è galantuomo” mi scrisse una volta e forse questo nascondeva un dolore. Mai pronunciato, ma presente e quindi umano, di una umanità piena. Voleva scrivere, con me, un libro sui ristoranti migliori vicino agli stadi di calcio o ai grandi impianti sportivi. “A Robbé, facciamo una bomba”. Non l’abbiamo fatto e mi verrebbe voglia di scriverlo in sua memoria.
Era un uomo innamorato della vita, sapeva stare con gli altri, sapeva ridere dei suoi difetti, sapeva raccontare storie indimenticabili. Era l’uomo a bordocampo che non dava informazioni spesso prive di senso sulla tattica (ma non è colpa loro, poverini), ma quello che cercava sempre una parola più vera, una frase più sentita, quello che invadeva il terreno a caccia, in definitiva, di un’emozione. Era figlio ed esponente di un giornalismo che non c’è più e che io ho avuto la fortuna di vivere. Non è nostalgia, perché comunque l’ho vissuto. E non è facile spiegarlo a chi fa questo mestiere oggi.
Meglio così, adesso vivrebbe nei rimpianti. Perché se è vero che i paragoni tra diverse epoche sono sbagliati, è vero che ci sono fatti e persone che fanno la differenza. E Giampiero Galeazzi, con le sue storie, la faceva. Grazie GP, le conservo tutte come un bene prezioso.
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