Lo hanno scritto tutti i giornali, appena ieri mattina s’è sparsa la notizia: “Gianluca Vialli ha perso la sua battaglia contro il cancro”. È la realtà, certo, ma preferiamo invece scrivere che ha vinto la sua battaglia per la vita. Perché di Gianluca non si ricorderà solo il campione medaglia di bronzo a Italia 90, gli scudetti, le coppe, le vittorie in patria e all’estero.
A Che tempo che fa aveva dichiarato: “Mi sono posto due obiettivi: non morire prima dei genitori e portare le mie figlie all’altare”. Era la fine di maggio 2021, “l’ospite indesiderato” –come egli stesso definiva il tumore al pancreas – era tornato a farsi sentire quattro anni dopo la sua prima manifestazione e lui aveva trovato il coraggio di dirlo a tutti. In televisione, addirittura. Non per sadico esibizionismo, ma per una convinzione precisa: “Non so, quando si spegnerà la luce, che cosa ci sarà dall’altra parte. Ma in un certo senso sono eccitato da poterlo scoprire”.
Un segno di forza, più che di debolezza, raro nel mondo dello sport a questi altissimi livelli in cui l’apparire invincibili e sicuri è un marchio di fabbrica generalizzato. Vialli, invece, pur avendo vinto quasi tutto quello che c’era da vincere non apparteneva alla categoria dell’uomo “che non deve chiedere mai”. Chiedeva, invece. La guarigione, probabilmente, ma non solo. Era eccitato da poter scoprire “cosa ci sarà dall’altra parte”.
Cresciuto nella provincia italiana fatta ancora – eravamo negli anni 60-70 – di pane, calcio e parrocchia, non ha mai nascosto le proprie origini: “Sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la PlayStation, la tv aveva un solo canale. Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone, a patto di frequentare anche il catechismo”. Un’impronta che s’è portato dietro tutta la vita e che gli ha fatto abbattere i luoghi comuni: “La malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, non è solo sofferenza, ma anche opportunità. Cerco di non perdere tempo e di dire ai miei genitori che gli voglio bene. E poi sento che non vale più la pena di perdere altro tempo in stronzate”.
Per questo, facendosi corti i giorni, diceva di voler resistere per non morire prima dei genitori (perché è contro natura) e di portare le figlie Olivia e Sofia all’altare (perché è un desiderio del cuore). Ha detto proprio così: all’altare, come ormai (lo dicono le statistiche dell’anno appena concluso) non si usa più.
Dopo Sinisa Mihajlovic morto meno di un mese fa ed Ernesto Castano (difensore della Juventus anni 60 e della Nazionale campione d’Europa ’68) deceduto due giorni or sono, la storia italiana perde così un altro emblema di un calcio semplice e pulito scomparso ben prima di loro. “Vorrei che qualcuno dicesse: È per merito tuo che non mi sono arreso” aveva detto poco tempo fa. Una speranza, ma anche qualcosa in più: il segno che Vialli non ha perso la partita più importante. Quella della vita.
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