MORTO GIANNI CLERICI, LA VOCE DI UN TENNIS “DIVERSO”
Sono passati due anni e mezzo da quando il sottoscritto dovette buttare giù due righe per la morte di Kobe Bryant. Separare il ricordo “distaccato” del giocatore di basket dal corredo emozionale dell’idolo di gioventù (e non solo) fu impossibile: non mi ci misi nemmeno. Oggi il contesto è se vogliamo diverso: se ne è andato Gianni Clerici, aveva 91 anni e da tempo si era ritirato dalle scene (almeno quelle pubbliche). Non era un giocatore – lo era stato, ma su livelli ben diversi da Kobe – ma un telecronista, un giornalista, uno scrittore: chiamatelo come volete.
Eppure la morte di Gianni Clerici ha creato di fatto lo stesso effetto in chi si accinge a colorarne la memoria (non che ce ne sia bisogno): avete presente quel brano che spesso viene fatto leggere nelle scuole, quello della madeleine in Alla ricerca del tempo perduto? Marcel Proust fa mangiare a Swann un dolcetto e – incredibile, o forse no – quel semplice gesto evoca nel protagonista sensazioni, odori, sapori di un tempo appunto perduto, il ricordo della nonna rivissuto in una semplice madeleine.
Del resto succede in continuazione: non vi è mai capitato di ascoltare una canzone, e di tornare – tra le pieghe di musica e testo – a una memoria passata che si può quasi toccare con mano? Bene: la morte di Gianni Clerici per me è stata fondamentalmente questo. Gianni Clerici, anche se magari è un’evidenza retroattiva, è una delle ragioni per cui chi scrive si è innamorato del tennis, eleggendolo a sport tra gli sport al punto da studiarne statistiche e consumarne libri (biografie, ma non solo), sviscerare partite, raccontarne in maniera più o meno interessante partite e tornei, conoscere le storie umane dietro il giocatore.
Gianni Clerici, per anni, è stato la voce del tennis: lui e Rino Tommasi, attraverso la nostra televisione, impreziosivano match che erano straordinari già di loro, perchè chi il tennis lo conosce e lo segue sa fin troppo bene che Sampras-Agassi, Graf-Seles o Federer-Nadal (e potremmo evidentemente continuare) potevano essere seguite anche con il volume a zero, tanto sarebbe bastato lo spettacolo in campo (spoiler: a volte, il sottoscritto lo fa ancora).
Con TommasiClerici, che si legge tutto d’un fiato come se fosse il nome di un brand, questo non poteva succedere: erano il complemento perfetto, entrambi profondi conoscitori del tennis ma prima ancora intrattenitori, nel vero senso del termine. Sia pur lontani dal voler fare paragoni con certe telecronache urlate di oggi – che pure si potrebbero fare, ma sono anche tempi diversi e va riconosciuto – i racconti di Tommasi e Clerici erano una poesia: non ci trovavi le analisi tecnico-tattiche, il voler razionalizzare anche l’irrazionalizzabile o, per contro, espressioni di malcelato stupore anche su un dritto in campo aperto. C’era altro: il gusto per il tennis, gli aneddoti su questo o quell’altro, il siparietto divertente e divertito (a volte anche sull’avvenenza di certe giocatrici, ma senza mai scadere oltre i limiti), i “circoletto rosso” e “colpo di difficoltà 11 sulla scala Mercalli” (questo è Tommasi) e poi tanta, tanta passione.
Gianni Clerici è stato tutto questo: frequentava i tornei grandi e meno grandi, conosceva tutti, a tennis aveva giocato e parlava con cognizione di causa, più competente lui – che faceva di tutto per non evidenziarlo – di chi vorrebbe esserlo ma può solo seguire. Di lui, resteranno celebri i ricordi di Wimbledon cui ha anche dedicato un libro (una raccolta dei suoi articoli): Gianni Clerici dei Championships amava soprattutto l’atmosfera, definiva il torneo londinese una religione, sosteneva (l’ha ricordato Mario Calabresi) che la cosa più importante dello Slam sull’erba non fosse il nutrito numero di match o la presenza dei grandi campioni, quanto le fragole con panna mangiate sul prato.
Perché Gianni Clerici era così, e a pensarci bene è stato grande per questo: per lui il tennis era un’esperienza di vita, era il cercare la curiosità dietro il vincente, la leggerezza del racconto che trascendeva i numeri di una finale, fosse anche la più importante. Era una lezione ogni singola volta, un’esperienza sempre diversa, un desiderio che anche per chi lo ascoltava (o leggeva) potesse essere così: era il racconto di un amore, o comunque di qualcosa che per lui era vero. Che sia l’unico italiano non giocatore inserito nella Hall of Fame del tennis (e il secondo di casa nostra dopo Nicola Pietrangeli) è tutto sommato un dettaglio, per quanto gigantesco: grazie Gianni, se il tennis oggi è questo, per il sottoscritto, è stato anche (soprattutto) per merito tuo.