L’ultimo mio incontro personale con Gianni De Michelis risale a qualche anno fa in un albergo di Milano. C’era ancora tra noi non sono la stessa simpatia e amicizia reciproca, ma anche un vissuto comune di carattere tutto politico, prima e durante gli anni del riformismo (quello vero) del socialismo italiano, fino a ciò che noi chiamavamo “lo scandalo di Tangentopoli” (di cui ha chiesto scusa agli italiani perfino Francesco Saverio Borrelli), con la successiva eruzione dell’antipolitica e del giustizialismo nella società italiana.
Tra un ricordo e l’altro, durante quell’incontro casuale, finimmo per fare colazione insieme e stilare un giudizio allarmato sulla nuova e grottesca politica italiana, con la promessa di rivederci al più presto, sperando in un “miracoloso imprevisto”.
Non molto tempo fa è morto suo fratello, un bravo editore. Gianni si era nel frattempo ammalato e mi parve giusto mandargli un biglietto, ma non disturbarlo. Personalmente mi mancherà tantissimo.
De Michelis era un grande “personaggio” veneziano, un signore nato nel 1940 che masticava politica come pochi, approdato fin da giovanissimo nel PSI con il timbro della sinistra lombardiana, cioè uno dei ragazzi di Riccardo Lombardi, che contrastavano quelli che nel PSI si chiamavano “autonomisti”. Quelli che si concentravano soprattutto a Milano, dopo aver appreso la lezione di Guido Mazzali e quindi la politica del giovane Bettino Craxi, entrambi collegati alle scelte di Pietro Nenni.
I socialisti che hanno vissuto a cavallo degli anni 60 e 70 ricordano un periodo di illusioni e allo stesso tempo di grandi delusioni. La scissione dei vecchi “carristi” (lo Psiup), venne compensata dall’unificazione socialista, ma arrivò per presto la rottura, una nuova svolta a sinistra che collocò il Psi in posizione addirittura polemica con i comunisti che si richiamavano a Giorgio Amendola.
Arrivarono di conseguenza le batoste elettorali, un mortificante 9,6% nelle elezioni del 1976, quando il partito era nelle mani di Francesco De Martino, ma anche di Giacomo Mancini e di alcuni “dilettanti allo sbaraglio” che predicavano “equilibri più avanzati”, una formula che rimase per anni un rebus irrisolvibile contenuto in un enigma.
Fu proprio la batosta del 1976 e la povertà politica del Psi di allora a portare alla cosiddetta svolta del Midas. Tra contrasti e colpi di scena, il 17 luglio 1976, in quell’albergo romano, su proposta di Paolo Vittorelli, la nuova direzione del Psi nominò Bettino Craxi segretario e Pietro Nenni presidente del partito. Il vecchio leader socialista abbracciò Craxi e gli disse: “adesso finalmente ho il cuore in pace, la mia opera è compiuta”.
L’elezione di Craxi era stata voluta da un blocco composto di “autonomisti” e della sinistra socialista, soprattutto da due giovani, oltre a Riccardo Lombardi: Claudio Signorile e Gianni De Michelis.
Fu quello il momento della grande svolta e del ritorno del socialismo italiano al protagonismo e alla ribalta politica. Non tutto filò liscio, ovviamente, dopo il compromesso raggiunto. Verso la fine del 1979 Signorile voleva imprimere una ulteriore svolta al partito per mettere in minoranza Craxi. In una direzione notturna, la situazione appariva talmente complessa che Nenni sussurrò a Craxi: “scusa se vado a dormire un poco, ma se hai bisogno del mio voto svegliami pure che ritorno”.
Fu da quel periodo che Gianni De Michelis divenne uno dei protagonisti indiscussi del rinnovato riformismo del Psi. Morto Nenni, all’inizio del 1980, in una successiva direzione, quando Signorile con la sinistra pensava di mettere in minoranza la segreteria, fu proprio De Michelis, in collegamento con Craxi, a trovare una soluzione di compromesso: Craxi restava segretario e Lombardi diventava presidente del partito. Questo tipo di equilibrio non durò molto, perché Lombardi non condivideva la politica di Craxi, e si dimise, ma con De Michelis che aveva lasciato la sinistra Craxi si rafforzò e cominciò la sua ascesa politica fino a Palazzo Chigi. La battaglia nel partito durò a lungo. Solamente per creare la corrente “riformista” (nome messo all’indice dalla cultura della cosiddetta sinistra italiana), al congresso di Palermo del Psi ci si dovette scontrare duramente con le varie correnti socialiste che si opponevano alla politica di Craxi e alla resurrezione del “garofano” al posto della “falce e martello” importata direttamente dalla simbologia comunista.
De Michelis fu pertanto uno degli artefici di quella svolta che portò il paese del G7 e ad essere la quinta potenza mondiale. Da ministro degli Esteri firmò, insieme a Guido Carli, nel 1992, settimo governo Andreotti, il trattato di Maastricht. Come Guido Carli, anche Gianni De Michelis ricordava quell’accordo storico con speranza, pur menzionando luci e ombre: il successo perché si era ottenuta l’Unione Europea con la formula della “tendenza” a raggiungere i parametri concordati e, allo stesso tempo, i passi falsi su molti aspetti istituzionali e sui compiti della Bce.
Si sa come quella stagione di riformismo irripetibile sia finita: unico caso nel mondo democratico occidentale, una intera classe dirigente di partiti democratici fu liquidata dall’intervento della magistratura delle procure, spalleggiata dai giornali dei grandi padroni italiani, cioè da coloro che lo stesso de Michelis chiamava “capitani di sventura”, dopo il libro scritto da Marco Borsa e “nascosto” perfino dei librai.
Il nuovo ha soppiantato il “vecchio” della prima repubblica, con i risultati poco edificanti che sono sotto gli occhi di tutti. Gianni, grande riformista, sosteneva che “prima poi la verità di tutto quello che è successo verrà a galla”, e che era valsa la pena di fare tutto quello che era possibile fare. Gianni sorrideva quando si parlava di lui come di una sorta di “re delle discoteche”, o di “esclusivo frequentatore” del Plaza di Roma.
“Non combinano niente, ti fanno prediche moralistiche, non capiscono quasi nulla di politica, sono stati condannati dalla storia e ti accusano di avventurismo” replicava ai grandi supporter della “seconda repubblica”, che avrebbero dovuto transitare l’Italia verso il “nuovo” e il “bello”. Concludeva spesso in modo inquietante i suoi discorsi: “Mi vengono i brividi a pensare a quello che può accadere a questo paese di ipocriti e di smemorati”.