Gianpaolo Donzelli non è un medico qualunque: il noto neonatologo dell’ospedale Meyer di Firenze, per 20 anni primario della terapia intensiva neonatale, crede fortemente nel potere della parola, tanto quanto quella della cura. Gianpaolo Donzelli scrive infatti poesie con la matita sulle garze, ed ha convinto Elisabetta Sgarbi, che dirige la casa editrice La nave di Teseo, ha pubblicare la sua collana dal titolo “La cura”. «C’entra Battiato? Certo – replica lo stesso luminare parlando con i microfoni del Corriere della Sera – “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore”. La canzone è diventata l’esergo del primo libro, che firmo con il sociologo Pietro Spadafora. “E guarirai da tutte le malattie perché sei un essere speciale. Ed io, avrò cura di te”».
Come detto sopra, Donzelli crede molto nel potere della parola: «Ai miei allievi dicevo: in reparto, vedete ma non vi vedono, ascoltate ma non vi ascoltano. Fantasmi, ecco che cosa siete per i malati. E domandavo: chi è il primario? Loro: “Quello che decide la terapia”. No, è colui che parla meno con il paziente mentre fa il giro mattutino in corsia. Ha dimenticato che la parola dà conforto, è la prima cura. Io parlavo ai neonati anche se non mi sentivano». Giampaolo Donzelli non ha mai capito perchè scelse Pediatria fra le tante specializzazioni: «Me lo sono chiesto tante volte e non ho ancora trovato una risposta. Però ero sicuro che sarei entrato in contatto con i piccoli pazienti solo se avessi ritrovato dentro di me il bambino che ero stato». E quali sono le doti richieste ad un pediatra? «Accoglienza, gentilezza, sensibilità. E una grande conoscenza dell’internistica. Un prematuro non ti descrive i sintomi».
GIANPAOLO DONZELLI: “AL MEYER LA VITA DEI BAMBINI CONTINUA…”
Donzelli lavora in un ospedale che l’architetto Baratta definì così “Questo è un ospedale che non sembra un ospedale”: «È fatto in modo che il bambino continui a vivere da bambino. Abbiamo lasciato decidere ai ragazzini la tipologia delle stanze. Le hanno scelte doppie, con i letti per due ricoverati e per due mamme e i bagni separati. Negli altri ospedali abbonda il laminato, che si pulisce in fretta. Qui c’è solo legno. Gli adolescenti oncologici si svagano con il doppiaggio dei film, assistiti da professionisti in uno studio attrezzato. La vita continua».
Il giornalista chiede quindi la sia la sua posizione sul fine vita: «La fine appartiene solo alla persona. Scegliere se essere sottoposti o no a cure intensive è un diritto inalienabile – spiega, per poi aggiungere – ma in Tanzania ho visto che il confine è labile». Ecco cosa accadde: «In ospedale c’era uno stanzone per i sorua, i bambini che morivano di morbillo. Li perdevo tutti, perché a quei tempi non esisteva la vaccinazione di massa. Una fine orribile. La complicazione più frequente era la laringite, che ostruiva le vie aeree fino a soffocarli. Non avevo né cortisone né bombole di ossigeno. Una notte entrai e vidi una madre che premeva la sua mano sulla bocca del figlio. Le gridai: ma che fai? Rispose: “L’ho aiutato a nascere, lo aiuto a morire”».