Perché, nell’uso ordinario del nostro linguaggio, siamo soliti attribuire ai nostri beniamini dello sport la capacità di compiere delle imprese? Apparentati emotivamente ad eroi mitologici, novelli Ercole simboli di uno sforzo sovrumano capace di elevarne spirito e moralità, ci infiammano di passione ed entusiasmo, innescando in noi il vivo desiderio di emularli. Fin dall’antica Grecia, del resto, sono celebri gli onori tributati ai grandi atleti protagonisti di vittorie memorabili, tra i pochi a potersi fregiare di uno statuto più vicino a quello divino che a quello terreno. Ciò significa, forse, che lo sport è intrinsecamente capace di spostare sempre un po’ più in là i limiti dell’uomo? Che il prodigarsi così duramente in una competizione per il raggiungimento di un obiettivo stabilito può conferirci una diversa chiave di lettura dell’intera esistenza? 



Tutti, verrebbe da dire, dovremmo intendere il nostro percorso di vita come un’impresa sportiva da compiere: ce lo hanno insegnato icone immortali dello sport, che hanno saputo travalicare i semplici confini della loro professione o della loro attività per fare dell’agonismo una vera filosofia d’azione. Un nome su tutti, in questo senso, in virtù anche dei riconoscimenti di cui è stato insignito, si staglia nella memoria collettiva italiana (e non solo): quello di Gino Bartali, dichiarato nel 2013 “Giusto tra le Nazioni” per aver salvato innumerevoli ebrei dalla furia nazifascista nel biennio ’43-’44, come ricordato dal bell’articolo di Cristiano Gatti sul Giornale del 24 settembre dello stesso anno, prendendo spunto proprio dal conferimento dell’onorificenza al ciclista toscano.



Ma cosa spinse un personaggio tanto rilevante a celare nel telaio della sua fidata bici documenti falsi che consentissero ai perseguitati di sperare in una nuova vita priva di orrore? Lui, che già a quell’altezza aveva ottenuto gran parte dei suoi trionfi sulle asperità del Giro d’Italia e del Tour de France, che poteva crogiolarsi su una notorietà che solo l’astro nascente Fausto Coppi poteva in qualche modo pareggiare, che bisogno aveva di mettere a rischio tutta la serenità che aveva guadagnato col duro lavoro di una vita? Il bisogno di responsabilità e umanità. Perché dietro i lustrini della visibilità, le vittorie, quelle davvero sofferte e incerte fino all’ultima pedalata, nascondevano una sensibilità fuori dal comune. 



Bartali era ben conscio che ogni traguardo porta con sé una dose inevitabile di dramma, di sacrificio, di disperazione: sentimenti che non tutti, per limiti propri o per circostanze imposte, avevano il coraggio o la fortuna di poter sussumere nella gloria di un trionfo. Ecco, dunque, che in Bartali, che di trionfi se ne intendeva, scattò un meccanismo irrefrenabile: dare a quanti più possibile anche solo un secondo di trionfo. Coloro che raggiungono le vette dell’ammirazione umana, infatti, non possono permettersi di rimanervi ancorati col piccone dell’indifferenza: loro dovere è scendere continuamente a valle, dare supporto ai feriti, ridonare animo agli scoraggiati, indicare la via della vittoria. È il ruolo che lo impone: non si è mai del tutto campioni, o leggende, se l’esperienza acquisita per diventare tali viene vanificata dalla pigrizia, o dalla paura, di rimettersi continuamente in gioco. 

Come ha fatto Bartali, che sentiva pendere su di sé il peso piacevole del riconoscimento dell’opinione pubblica e che era altresì fermamente convinto che i simboli non possono rimanere immagini sbiadite su un almanacco o stemmi su un gonfalone da mostrare con fare borioso. Così la storia può assumere la piega che vogliamo imprimerle: non sbandierando privilegi o pretendendo attenzioni, ma impegnandosi con costanza, giorno dopo giorno, anche nel silenzio dei nostri allenamenti, come lo stesso Bartali ci ha insegnato. E, come ricorda lo stesso Gatti, non importa puntare sulla quantità dell’operato – che non sempre sottostà alla volontà umana – ma sulla qualità dell’intendimento.

A dimostrazione di ciò, si dice che la vittoria al Tour de France del 1948, che lo stesso Bartali conseguì, contribuì ad allentare le tensioni in Italia scaturite dall’attentato a Palmiro Togliatti da parte di uno studente. Che la risonanza del fatto sia stata più o meno amplificata dalla percezione dell’epoca, ciò non toglie che un dato emerge in maniera difficilmente confutabile: quando si è portatori di valori autentici, anche il semplice svolgere la propria mansione può assurgere alla funzione di testimonianza.

Risulta certamente più chiaro da comprendere, adesso, per quale motivo lo sport – in primis dal fascismo nostrano, per restare in tema – sia stato, a periodi alterni, tacciato di mirare alla sovversione sociale o nel mirino della più bieca strumentalizzazione politica. Non è forse vero che, spesso, risultano più insidiose, per la stabilità di un potere costituito, quelle figure che, senza proclami e manifestazioni di piazza, educano i loro osservatori alla bellezza, al rispetto, alla rivendicazione della libertà? E non è forse altrettanto vero che proprio tramite lo sport siano state accese micce destinate a divampare in fragorosi incendi? Come non pensare, ad esempio, alla leggendaria fotografia che ritrae, sul podio dei 200 metri delle Olimpiadi di Messico ’68, gli atleti di colore John Carlos e Tommie Smith col capo chino e il pugno – coperto dal guanto nero che simboleggiava il black power –  rivolto verso il cielo in segno di dissenso contro la discriminazione razziale? Per non parlare dell’ultima edizione in ordine di tempo, quella di Rio2016, in cui per la prima volta a gareggiare fu anche la rappresentativa dei rifugiati. E come non richiamare alla mente episodi speculari, in cui i giocatori di colore del campionato di football americano si sono rifiutati di intonare l’inno statunitense, inginocchiandosi, o il diniego di figure del calibro di LeBron James di presenziare alla Casa Bianca come ospiti di Trump? 

L’elenco potrebbe continuare, eppure sembra già essere emblematico del senso profondo di cui lo sport si fa portatore. Essendo un prodotto divenuto sempre più fruibile negli anni, aperto oltretutto ad un pubblico estremamente trasversale sia per quel che concerne le età sia per quel che riguarda l’estrazione sociale o gli interessi, lo sport – nel bene e nel male, si intende – finisce per essere, a volte inconsapevolmente, un’enorme cassa di risonanza dove tutti gli aspetti più delicati della socialità si scontrano e si amplificano, dove la loro convivenza può, come in un laboratorio sui generis, essere elaborata in vista di una sua esportazione più ampia; oppure esplodere in contraddizioni ancora più aspre, manifestando l’urgenza di alcune questioni ineludibili. 

In quello che, grazie anche alle numerose trasposizioni cinematografiche, è diventato un episodio cult della cultura pop, zio Ben si rivolgeva al nipote Peter Parker, alter ego di Spider-Man, ricordandogli accoratamente che da un grande potere derivano grandi responsabilità. Lo sportivo, ieri come oggi, non può ignorare il ruolo che riveste, che al contempo ha voluto conquistare ma che gli è stato anche affidato. Il suo esempio, come una fiaccola a capo di un grande corteo, può svelare percorsi nuovi, mai battuti, verso una critica socio-politica costruttiva. Come tutti i mezzi ad ampio raggio di influenza, non si dovrà abusare della vetrina sportiva, ma utilizzarla con buon senso, mettendo al centro cause giuste, che coinvolgano vita, libertà, dignità, diritti primari che secoli di correnti filosofiche, dal giusnaturalismo al welfarismo, fino alla bioetica contemporanea delle capacità, hanno rivendicato. 

E proprio a proposito di filosofi, una mente assolutamente illuminata come quella di John Stuart Mill nel suo splendido saggio On Liberty del 1859 riteneva che, in una ipotetica comunità formata da 1000 membri, anche una sola opinione divergente potesse rappresentare un’inesauribile risorsa. Pensiamo quale significato questo assioma possa assumere se trasposto al mondo dello sport, dove un solo uomo, con un solo apparentemente innocuo gesto, può smuovere intere masse. 

Sport, storia e società, dunque: una rete di connessioni a tratti inestricabile, facce della stessa medaglia che afferiscono alla comune tensione verso la costruzione di un mondo più giusto e solidale. Ma che fare quando queste istanze partono da presupposti diversi, se non opposti? Che fare quando queste realtà umane confliggono? Può venirci in aiuto Hegel, che sosteneva come ogni contraddizione, lungi dal rappresentare una tragedia, sia necessaria all’avanzamento dell’umanità. Non si combatte, come nello sport, appunto, per eliminare un nemico: si vive per superare la contraddizione, per uscirne rafforzati, con vecchie o nuove convinzioni. Se lo sport saprà seguire alcuni ammaestramenti virtuosi del passato, ecco che potrà diventare il terreno del confronto, un tribunale della pace. Altrimenti, se si piegherà alla strumentalizzazione di coloro che mirano al profitto a scapito degli altri, Bartali e tutti i suoi successori saranno ricordati non come precursori, ma come eroi solitari e visionari. E a noi rimarrà la colpa di esserci limitati a definire “giusto” qualcuno da cui non abbiamo saputo trarre la giusta ispirazione. E il rimpianto di non aver vissuto uno sport più profondo e vicino alle nostre inquietudini.

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