Tanto tuonò che alla fine piovve e alla fine è piovuta anche la rinuncia di Joe Biden a ricandidarsi alla Presidenza degli Stati Uniti. Ora le previsioni si spostano su chi sarà il nuovo candidato democratico, previsioni complicate dall’ipotesi di una revisione delle procedure interne del partito per la scelta dei candidati. Inoltre, i repubblicani hanno aperto un altro fronte chiedendo che Biden si dimetta anche da presidente, una richiesta irrituale ma di per sé non illogica. L’insediamento del nuovo presidente avverrà il 20 gennaio 2025 e il prossimo semestre non sarà facile da gestire sia per i problemi interni che per la complessa situazione internazionale. Una prova difficile per Biden e rischiosa per la nazione, visti i motivi che hanno portato alla sua rinuncia.
Nel caso di dimissioni di Biden, o di sopravvenuti impedimenti a continuare, il governo passerebbe alla Vicepresidente Kamala Harris, la candidata sostenuta da Biden in occasione della sua rinuncia. La Harris non ha brillato particolarmente come Vicepresidente, ma sarebbe la candidata “naturale”, come lo fu Biden di Barack Obama nel 2016. Né sembrerebbe emergere per il momento un candidato molto più forte di Kamala tra i vari pretendenti, se si esclude la finora restia Michelle Obama. Vi è anche chi suggerisce che la Harris mantenga la candidatura alla Vicepresidenza: un duo vincente negli ambienti femministi, rilevanti tra i democratici, e tra le minoranze etniche, essendo Michelle afroamericana e avendo Kamala ascendenze giamaicane e indiane.
Tuttavia, due donne come candidate potrebbe essere troppo anche per una parte dell’elettorato democratico, ulteriore prova che lo scontro non è più solo tra due partiti o tra candidati, ma coinvolge la concezione stessa degli Stati Uniti. È pensabile che si stia diffondendo a livello generale, tra i “semplici cittadini”, la coscienza che il cosiddetto “Secolo americano” sia ormai avviato al declino in un mondo sempre più multipolare e sempre meno governabile sulla base del conclamato “Eccezionalismo americano”.
L’attentato a Trump ha messo in primo piano, e non solo nella cronaca interna, la violenza che contraddistingue la società americana: le frequenti sparatorie, l’ultima due giorni fa a Filadelfia con tre morti, e i non rari attentati a presidenti e candidati. Non esattamente ciò che dovrebbe contraddistinguere quella che si autodefinisce la più grande democrazia del mondo. Nell’attentato a Trump è rimasto ucciso un suo sostenitore presente all’incontro, ma rischiare la vita assistendo ad un comizio politico è tipico dei regimi autoritari, non delle democrazie. Un problema che riguarda certamente le istituzioni, ma che ancor più mette in discussione le caratteristiche della società americana.
Il fallito attentato ha avvantaggiato Trump, eroicizzato dai suoi più ardenti sostenitori e ora appoggiato anche dai suoi oppositori interni, essendo ormai la sua candidatura inappellabile. Ciò gli ha permesso una decisione per molti versi ardita: la scelta di J. D. Vance come candidato alla Vicepresidenza, un personaggio sotto molti aspetti “scomodo”.
Con questa scelta Trump ha reso evidente a che tipo di Paese si rivolge, come scrive Riro Maniscalco nel suo articolo, a “Un mondo fatto della carne, delle ossa e dei valori di esseri umani dimenticati, ignorati se non totalmente ignoti al resto del Paese. Sì, parliamo di quell’America che ha trovato in Trump il suo paladino.” Un mondo completamente separato da quegli ambienti e gruppi di potere di casa tra i democratici e anche tra i repubblicani, dove però avranno molta difficoltà a contrastare “l’eroico” Donald.
Significativa, sotto questo profilo, la presa di posizione di Elon Musk, il capo di Tesla, in aperto sostegno a Donald Trump, anche con sovvenzioni alla sua campagna decisamente consistenti. Anche Musk si trova in conflitto con il centro del sistema statunitense e può rappresentare un buon alleato per Trump e il suo MAGA: Make America Great Again. Un programma che, ben lungi dal voler ridurre la supremazia statunitense, si concentra in primo luogo sugli Stati Uniti in sé, “America first”, mettendo in secondo piano lo storico ruolo di modello e guida del mondo che ha finora caratterizzato la politica americana.
Una visione che trova senza dubbio ampio riscontro negli strati della società ai quali si rivolge Trump, quella “Deep America” che si contrappone al “Deep state” vicino ai gruppi di potere. È anche probabile che questo elettorato sostenga Trump nella sua intenzione di ridurre i costi della politica estera statunitense, addossandone buona parte agli altri Paesi, pur alleati. Un esempio è la polemica a suo tempo di Trump contro gli altri membri della Nato, richiamati ruvidamente a contribuire maggiormente ai costi dell’organizzazione, riducendo così il carico sugli Stati Uniti.
Come evidenzia Paolo Annoni in un suo recente articolo sul Sussidiario, tutta la politica economica preannunciata da Trump avrà risvolti molto negativi per l’Europa e, vista la conduzione della Commissione Europea, ci sarà da ringraziare se non saranno aggravati dalle decisioni di Bruxelles. Una politica peraltro, come sottolinea l’articolo, già iniziata con Biden e che pare rispondere a istanze più radicate e profonde di quelle rappresentate in superficie dal confronto tra democratici e repubblicani. Come afferma Chris Foster in una intervista al Sussidiario, “In USA c’è di fatto, da sempre, un solo partito, il partito del Pentagono e dell’establishment dei due grandi partiti, dei big donors, cioè famiglie storiche, tech billionaires e grandi società.”
Alla fine, a costoro potrebbe anche servire un Trump apparentemente rivoluzionario lasciato a fare il lavoro sporco ritenuto necessario. Preparandosi intanto adeguatamente per le prossime elezioni, magari prima di quattro anni.
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