Filosofo gentile, Giulio Giorello, te ne sei andato come solevi vivere, discreto, svagato, senza disturbare, lasciando aperte porte e finestre e sparpagliati gli appunti di tutti i tuoi pensieri, i tuoi sogni. Filosofo e matematico, e per questo filosofo della scienza, eterno professore, attento ai suoi studenti come a discepoli di antica scuola, sempre disponibile, alle domande e all’aiuto, era incantevole ascoltarti dissertare con leggerezza da Spinoza – il tuo maestro, il tuo modello – all’amico dell’ultimo pub irlandese che ti aveva conquistato, mescolare lo spirito più alto con quello alcolico e  con gli spiritelli che stuzzicavano la tua fantasia fervida, che hai reso protagonisti di uno dei tuoi ultimi libelli.



Avevamo vent’anni o poco più, al sabato, e ci dedicavi lo stesso tempo che ai colleghi famosi, stupito dalla curiosità, dalla passione e da quella cocciuta e baldanzosa cristianità che scrutavi con tenerezza, e forse un po’ invidia. Ci vuol coraggio in un tempo di agnostici, indifferenti a Dio o convinti che sia al proprio servizio, bigotti o supponenti.



Amico di teologi e cardinali con cui dialogavi con rispettoso ossequio, perché stimavi l’intelligenza e la sincerità delle idee, degli ideali, ma nemico dei moralismi di una fede ridotta a dottrina, a etica, senza la forza dell’esperienza, di una fede talebana, o dell’ateismo di Stato, che in tanti paesi purtroppo c’è ancora, lamentavi, anche se mascherato con un patina di libertarismo; amico dei poeti, dei bambini, degli innamorati, di tutti gli irriverenti, i non allineati, gli animi liberi. “Non ho molta fiducia nel senso della perfezione, la temo studiata a tavolino. Preferisco di gran lunga l’imperfezione”.



Nemico di ogni ideologia, di ogni assolutismo che imponga paradisi fittizi, della tecne o della medicina, o della politica, di quest’Unione che aveva perso lo spirito che l’aveva creata: arruffona, egoista e avida, ma un tempo geniale, capace di slanci vertiginosi, inclusivi: “le grandi capitali d’Europa si sono definite orgogliosamente anche in momenti drammatici della loro storia città di rifugiati. Dov’è finito il senso dell’avventura dell’Occidente?” Già. Dov’è Ulisse? L’uomo dei desideri, e dunque dei sogni, perché – citavi con sprezzatura – “come diceva Cynderella i sogni son desideri, e senza desideri la nostra vita sarebbe senza sogni, cioè tristissima”. Mai smettere di desiderare di desiderare, professore.

L’ultima volta che ci siamo incontrati, come quando avevo vent’anni, abbiamo scherzato e ragionato di concetti altissimi, ed era esaltante la fatica di star dietro alla tua mente sbarazzina, capace di volare troppo alto o troppo di scarto, imprendibile, irriducibile. Poiché io mi sono dimenticata e tu ti sei dimenticato la firma sulla liberatoria per i diritti d’immagine televisivi, ci siamo dovuti rivedere e così passeggiare vicino all’albergo del centro a cui ti appoggiavi a Roma, e passeggiando e chiacchierando naturalmente ci siamo ridimenticati la liberatoria, e così ci siamo rivisti ancora… Beata sbadataggine.

Ma abbiamo potuto parlare di Caravaggio, di quel san Tommaso che non crede, è vero, ma ha il fegato di mettere il dito nelle piaghe di Cristo. E poi crede, a tutto, al paradiso e all’anima. “Mi basterebbe che sopravvivesse l’intelligenza. Se vuol chiamarla anima…”.

A Dio, caro professore, anima bella e libera e pura. Sulle note dell’Oratorio di Bach che amavi tanto. A Dio.