LA LIBERTÀ DI GIORGIO GABER

Giorgio Gaber non è possibile definirlo solo un “artista”: era prima di tutto un uomo, cioè una persona, a tutto tondo, un autore che tramite la musica e le parole ha saputo testimoniare il passaggio tra più epoche “prefigurando” decenni prima i problemi e i rischi che oggi vediamo davanti agli occhi.



Nel giorno del suo 83esimo compleanno c’è chi lo vuole ricordare per i suoi show incredibili tra satira e ironia, tra “maschera” e “denuncia”; c’è chi lo ricorda per i mitici duetti con Mina e chi ancora per l’ultima fase di profonda disillusione per una modernità che non lo entusiasmava per niente (è morto il 1 gennaio 2003, ndr): noi ci limitiamo, con presunzione forse, a “tenere insieme tutto” perché Gaber non era appunto un artista “riducibile”. Per iniziare a capirlo prendiamo ad esempio tre suoi testi: uno famosissimo, “La libertà” e altri due tutt’altro che “mainstream” come “Il dilemma” e “Il potere dei più buoni”. Quasi tutti nel tempo si sono innamorati di quell’inno alla libertà come partecipazione dell’individuo che tanto piaceva alla sinistra del ’68, di cui pure Giorgio Gaberscik ne era affascinato da giovane: «La libertà non è uno spazio libero; Libertà è partecipazione». Ecco, ben pochi sanno però che nel suo sodalizio con l’autore e poeta Sandro Luporini era lo stesso Gaber a non essere affatto convinto di quella “partecipazione”: «avrebbe voluto scrivere “libertà è spazio di incidenza”» (confessa Luporini nel libro “G. Vi racconto Gaber”), per dare un segno di distanza da quella presunta salvifica “partecipazione” lodata dalle masse in piazze degli anni Settanta.



IL “DILEMMA” CONTRO IL “POTERE”

In un altro straordinario pezzo del repertorio di Gaber, nella “Canzone della non appartenenza”, il cantautore e inventore del Teatro Canzone fa meglio capire cosa intenda per vera “libertà”, per vero “partecipare”: «Quando non c’è nessuna appartenenza, la mia normale la mia sola verità, è una gran dose di egoismo magari un po’ attenuata da un vago amore per l’umanità. E non ci salva l’idea  dell’uguaglianza né l’altruismo o l’inutile pietà. Ma un egoismo antico e sano di chi non sa nemmeno che fa del bene a se e all’umanità». La libertà umana è giocata tutta in quel “dilemma” tra una scelta, una voglia di avere più “spazi” e “diritti” – tutt’altro che negativa, intendiamoci – e quel “egoismo sano” che mira al bene del proprio Io, alla riscoperta di ciò che è irriducibile della propria persona come condizione necessaria perché un bene non “casuale” ma quasi “affettivo” possa instaurarsi nella comunità. Nel testo del “Dilemma” questa sfida a ciò che “pensa” la modernità è palese e sfocia nell’inno, tragico, di amore per cosa è famiglia: «E rifiutarono decisamente la nostra idea di libertà in amore, a questa scelta non si seppero adattare, Non so se dire a questa nostra scelta, o a questa nostra nuova sorte. So soltanto che loro si diedero la morte […] Vorrei riuscire a penetrare. Nel mistero di un uomo e una donna, Nell’immenso labirinto di quel dilemma, Forse quel gesto disperato Potrebbe anche rivelare Come il segno di qualcosa che stiamo per capire». La sfida alla “famiglia aperta” negli anni in cui le contestazioni alla famiglia tradizionale iniziavano ad essere manifeste, è stato un altro gesto di “libertà” autentica avanzato da Giorgio Gaber. Un Gaber che aveva in odio proprio quel senso di “banale opinione comune”, quel finto buonismo che rischia di celarsi nel “potere dei più buoni”, come descrive splendidamente in uno dei testi meno conosciuti: «Penso alle nuove povertà, che danno molta visibilità. Penso che è bello sentirsi buoni, usando i soldi degli italiani. È il poter dei più buoni, È il potere dei più buoni. Costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni»,



IL MISTERO E L’ILLOGICA ALLEGRIA

E infine la felicità, il tema più dibattuto della storia umana ma anche il vero “snodo” di ogni singolo Io di fronte alle ansie e alle fragilità della contemporaneità: Giorgio Gaber nel brano “L’illogica allegria” mette al centro del suo interesse artistico e umano proprio quella strana, forse intimistica, presa di coscienza che non tutto nella vita è male o potere. «E’ come un’illogica allegria di cui non so il motivo  non so che cosa sia. E’ come se improvvisamente mi fossi preso il diritto di vivere il presente», scrive l’autore milanese parlando di quel possibile “niente”, di quel “piccolo bagliore” che solo possa risvegliare il senso di allegria e felicità che è insito ad ognuno di noi. Dalla libertà alla felicità, il “mistero” sul destino ultimo dell’umano resta: eppure per un già criptico Gaber degli anni Duemila, proprio quel “mistero” resta quanto di più affascinante e stimolante possa esistere. In questa intervista a “Il Sabato” Giorgio Gaberscik ammette: «Ci si potrebbe addentrare in una definizione di cultura… Per me cultura è un “modo di interrogazione”. Se l’interrogarsi sul mistero è cultura, dobbiamo impegnarci in questo lavoro. Oggi se prendo un libro, lo lascio dopo quattro pagine, non riesco a trovare stimoli nuovi. E meno stimoli hai, più ti appiattisci. Posso dire che in ciò che serve a me, esistenzialmente, l’interrogazione è centrale, per capire di più di sé, del mondo. Il fascino di questo mestiere d’artista è proprio avere dentro questa… cosa, questa interrogazione».