“Un Paese che ha il 13% di disoccupazione e, in particolare, il 44% di quella giovanile, non ha futuro”: era molto preoccupato Giorgio Squinzi, in quest’affernazione che aveva ripetuto in molte sedi nel corso del 2014 – anche dopo -, a metà del suo mandato al vertice della Confindustria. Perché per l’imprenditore bergamasco, padre della Mapei e grande appassionato di ciclismo e di calcio – scomparso ieri a 76 anni – pensare all’impresa equivaleva pensare al bene comune. E non in nome di questo o quell’elegante principio modernista di sostenibilità sociale: piuttosto, per quell’istinto naturale e basale che si chiama solidarietà.
Solo da questo profonda vocazione interiore, e non da protagonismo o narcisismo, era derivato il suo impegno nell’associazionismo: un modo per restituire al sistema sociale attraverso un ambito d’azione più vasto di una singola impresa per quanto grande, parte di quello che gli era giunto dal sistema, indifferente al fatto che nessuno sul mercato gli avesse mai regalato nulla. Aveva avuto, voleva dare. E molto Giorgio Squinzi ha dato a chi ha avuto la buona fortuna di incrociare la sua strada.
Non soltanto un galantuomo, troppo poco definirlo così. Un idealista illuminato. Un imprenditore sociale. Un filantropo. Con l’unico difetto, semmai, di essere troppo buono e di credere al prossimo sempre e pervicacemente, fino a prova contraria, immune da pregiudizi e preconcetti. Un difetto nato dall’eccesso di pregio, dalla bontà d’animo di fondo, mal ripagata quando riposta in mani sbagliate proprio per l’ostinata volontà di vedere innanzitutto il lato buono delle persone. E se i suoi quattro anni di presidenza della Confindustria sono stati scanditi in qualche momento dalle polemiche e, nell’insieme, dall’esplosione della crisi del Sole, lo si deve proprio al tradimento morale perpetrato ai danni di Squinzi da alcuni ai quali lui aveva dato fiducia.
Un grande sindacalista capace anche di dure contrapposizioni come Sergio Cofferati, di provenienza chimica, ricordava gli otto anni della presidenza Squinzi in Federchimica – la federazione dell’industria chimica – come anni costruttivi, coesi, positivi. “Non uno sciopero”, ripeteva al riguardo, con orgoglio, l’industriale della Mapei, autore di celebri e proficui accordi sindacali tessuti sulla trama della cooperazione e non della contrapposizione.
La stessa filosofia che oggi consente alla Mapei di avere 2,5 miliardi di fatturato, 10 mila dipendenti, una presenza globale in un settore – la chimica per l’edilizia – esposto alle difficoltà dei mercati ma anche alle opportunità dell’innovazione di cui Squinzi ha sempre fatto un bandiera, reinvestendo in azienda la totalità degli utili prodotti. Già, perché l’imprenditore scomparso ieri è stato anche il campione dell’economia reale, del tutto insensibile alle lusinghe della finanza e dell’economia impalpabile.
Non quotata in Borsa, interamente di proprietà familiare, della sua Mapei Squinzi aveva il vezzo di essere amministratore unico. E a chi gli faceva notare che questo assetto fosse inconsueto per un’azienda così grande, lui rispondeva che il suo consiglio d’amministrazione sostanziale erano i 120 dirigenti del gruppo, ai quali lui come capo riservava la massima considerazione, discutendo con essi le esigenze e i problemi dell’azienda, e costruendo insieme le soluzioni, indifferente ai formalismi di organi collegiali formali e pomposi ma molto spesso privi di competenze e di interesse nella vera vita di una società.
Un pioniere dell’impresa di domani, anzi di quella che vorremmo che fosse l’impresa di domani.