Le voci natalizie sulle mosse di Gedi – che prima si sarebbe interessata al Giornale, poi alle testate del gruppo Rieffeser – non paiono significative in sé, quanto nel mantenere visibile la fibrillazione dell’editoria giornalistica nazionale. Che resta alta e giustificata, ogni mese, dal continuo calo di copie vendute: laddove il crollo strutturale della diffusione cartacea è sempre lontano dall’essere compensato dall’aumento dei ricavi digitali.
I bilanci sono conseguenti: e alla fine poco conta se proprio Gedi venga accreditata dagli analisti di un 2022 in perdita (per il terzo esercizio di fila). Altri gruppi con conti meno problematici o addirittura con attivi contabili non presentano situazioni strategiche più solide e rassicuranti. Anzi: ciò che accomuna senza eccezioni tutti i gruppi-media italiani è l’incapacità di produrre fatturati adeguati attraverso il loro “core business”: l’informazione. Sempre più spesso, i ricavi di puntello alla caduta degli incassi tradizionali da vendite e da pubblicità appaiono collegati a iniziative di partnership sulle pagine o sui siti (oggetto di critiche crescenti da parte degli stessi corpi giornalistici); oppure alla messa a valore del marchio-testata per iniziative non giornalistiche. Uno dei terreni esplorati negli ultimi tempi con qualche apparente respiro strategico è quello della formazione digitale (emblematica l’acquisizione – da Gedi – dell’Espresso da parte di Danilo Iervolino, ex proprietario del polo universitario privato Pegaso).
Resta il fatto che nessun quotidiano italiano (europeo) è in grado oggi di reggersi sulle sue gambe, come invece il New York Times (5 milioni di abbonati, principalmente negli Usa) o il Financial Times (1 milione di abbonati in tutto il mondo). Entrambi devono la loro competitività fondamentalmente all’aver completato da tempo un’effettiva transizione digitale. Sono due media che vengono realmente pubblicati 24×7, virtualmente “ogni istante” in rete, senza più un’edizione “principale” cartacea ogni 24 ore, al mattino. Tutte le risorse della redazione (a cominciare dalle grandi firme) sono costantemente a disposizione per spiegare e commentare in tempo reale gli eventi che continuamente ruotano sulla homepage e sulle profondissime “pagine verticali” di dati e archivi. E se dal Nyt sono giunte due lezioni specifiche, esse hanno riguardato da un lato l’acquisizione della testata sportiva digitale The Athletic (definitivamente affermatasi sulla vetrina Nyt durante i recenti Mondiali di calcio in Qatar) unita a forti investimenti in contenuti di gaming, cucina, lifestyle; e dall’altro il ringiovanimento della redazione, con l’avvicendamento programmato di circa 100 giornalisti, con taglio di costi e spazi aperti ai “nativi digitali”.
Proprio Gedi – anche nelle ultime voci – è il gruppo italiano che più di altri ha mostrato maggiore dinamismo nel tentare di superare una situazione “pietrificata” da tempo nel settore in Italia. Anzi: la nascita stessa di Gedi – dalla fusione fra Espresso-Repubblica e Stampa-Secolo XIX, con la successiva acquisizione di controllo integrale da parte di Exor – ha rappresentato il solo vero “scossone” all’industria giornalistica nazionale. E non devono sembrare sorprendenti (se vere) le “avances” verso il gruppo Rieffeser (e neppure verso la famiglia Berlusconi, che ha invece preferito dismettere Il Giornale presso il gruppo Angelucci). La razionalizzazione delle testate locali è – assieme alla ricerca di maggior massa critica – una delle direzioni di cambiamento scelte da management Gedi: che ha annunciato, per il nuovo anno, anche un forte ridisegno editoriale a favore dei canali digitali. Da John Elkann – primo azionista dell’Economist – non si cessa di attendere anche un possibile passo internazionale: in contesto di cambiamento geopolitico che sembra favorire accelerazioni (in Germania il gigante Axel Springer è passato sotto il controllo del megafondo globale Kkr).
Certamente, Gedi condivide con gli altri gruppi italiani la paralisi di un’industria media rivoluzionata dal digitale da almeno un ventennio: eppure ferma – sul piano regolamentare – al decreto Mammì del 1990 (oggi: legge Gasparri). Bloccata dal muro antitrust fra due canali stagionati (carta e tv) e dal sostanziale duopolio televisivo. La presenza di Berlusconi fra i partner di una maggioranza di centrodestra pare escludere ogni evoluzione su questo fronte, nonostante il pressing delle autorità Ue.
Più promettente appare il superamento dello stallo sulla rete Tim: che da un quindicennio è il punto di leva (eternamente) potenziale per una ricostruzione nazionale dell’information & communication technology. Ma non sarebbe il primo anno, il 2023, ad aprirsi sotto forti aspettative di cambiamento epocale per l’editoria giornalistica e a chiudersi tra semplici voci di operazioni secondarie.
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