Caro direttore,
tutti o quasi i giornalisti italiani in attività si sono ritrovati in qualche modo a fare i conti con Indro Montanelli. Alcuni hanno scelto il mestiere leggendo i suoi articoli e libri, “per diventare come lui”. Altri per ragioni opposte: per fare giornalismo contro quello incarnato e praticato da Montanelli. Molti lo hanno studiato: non solo a scuola di giornalismo. È impossibile capire o raccontare l’Italia del ventesimo secolo senza imbattersi mille volte in “Cilindro”: ad esempio nella sua inchiesta contro l’Eni quattro mesi prima della morte misteriosa di Enrico Mattei; oppure nella sua “gambizzazione” da parte delle Brigate Rosse (sopravvisse, a differenza poi di Carlo Casalegno e Walter Tobagi; ma il primo “giornalista da abbattere”, per i terroristi, era indiscutibilmente lui). Difficilmente la Seconda Repubblica avrebbe avuto per protagonista Silvio Berlusconi se Montanelli, già 65enne, non avesse rotto con il “suo” Corriere della Sera e fondato il Giornale. La sua divulgativa e provocatoria “L’Italia della guerra civile” uscì molti anni prima dell’ultimo volume della monumentale biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, pubblicato con un titolo analogo: ma postumo e dopo la caduta del comunismo in Europa. E così via.
Eugenio Scalfari, che ne ha raccolto l’eredità di “Migliore” nella corporazione giornalistica nazionale, non ha mai avuto esitazioni nel riconoscere la superiorità di Montanelli. L’allora direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli, volle deporre personalmente le ceneri di “Cilindro” nel cimitero di Fucecchio. Gli allievi – veri, sedicenti, reprobi o inconsapevoli – sono innumerevoli. In queste ore sono di nuovo tutti alle prese con un collega che, in fondo, mai si è proposto in vita come maestro di alcuno.
La sua statua imbrattata di vernice rossa – incombente sulla prima pagina del Corriere di ieri – interroga anzitutto, ancora una volta, i suoi colleghi: qui e ora. Li interpella con lo stile di chi ha sempre vestito a fatica la divisa del direttore. Si è sempre sentito, Montanelli, un inviato (molto) speciale: uno dei grandi solisti dell’era pre-digitale, senza algoritmi incorporati nella “Lettera 22”. Ed è sempre stato un forte opinionista, sforzandosi – e non sempre riuscendoci – di evitare la faziosità. È stato un “maledetto toscano”, secondo la categoria coniata dal suo collega e rivale Curzio Malaparte.
È stato Montanelli stesso a raccontare di aver contratto matrimonio nel 1936 una minorenne eritrea, durante la guerra coloniale condotta dall’Italia fascista. Lo ha confermato lui in tv, più di cinquant’anni fa. Niente denunce postume fatte filtrare da un qualche #metoo nato sui “social media”. Nessuna segreto scabroso rivelato da qualche intercettazione giudiziaria più o meno pertinente. Il capo d’accusa – cui i “Sentinelli di Milano” (ignoti-con-account-Facebook) hanno voluto dare senza sentenza un’esecuzione sommaria “post mortem” – Montanelli se lo è confezionato in proprio, facendo il suo lavoro di giornalista.
La statua ai giardini pubblici di Milano non l’ha chiesta o pretesa lui (il suo lascito culturale è affidato a una fondazione che – chi lo desidera – deve andare fino in Valdarno per visitare). Il monumento è stata posto dov’è per decisione del Consiglio comunale di Milano. Qualche polemica di circostanza seguì essenzialmente sulla qualità artistica dell’opera dello scultore toscano Vito Tongiani. Qualche atto vandalico, dal 2006 in poi, si era già verificato.
Un giornalista ha scritto qualche giorno fa su un quotidiano storicamente rivale che Montanelli non avrebbe voluto quella statua. Non lo possiamo sapere. Invece possiamo immaginare come avrebbe affrontato il caso di cronaca che ha visto la sua effigie vittima di una secchiata di vernice sulla scia delle proteste globali seguite alla morte d George Floyd. Montanelli ne avrebbe scritto, molto.
Avrebbe fatto – o fatto fare – la cronaca più completa e dettagliata attorno alla notizia. L’avrebbe poi certamente commentata, mettendoci dentro il suo personale punto di vista: quanto più possibile di gusto “controcorrente”, mai “mainstream”. Non avrebbe risparmiato neppure la memoria di se stesso, anche se si fosse ritrovato a contestare le ragioni di chi oggi vuole rottamare la sua statua. Avrebbe giudicato i “Sentinelli”, così come fece con i suoi attentatori: sempre mettendo in gioco se stesso. Sempre volendo vincere la partita, ma non in partenza, come potere costituito.
Certamente non si ritroverebbe nell’imbarazzo che invece sembra affliggere oggi molti colleghi: silenziosi e indecisi fra coloro che (come Gad Lerner) sollecitano un definitivo distanziamento storico dalla figura di Montanelli; e chi invece (come Marco Travaglio) ne difende la grande lezione di giornalista “coraggioso”.
La – probabile – ultima lezione di Montanelli pare comunque all’altezza del personaggio: richiamare, quasi vent’anni dopo la scomparsa, la sua comunità professionale a riflettere sul proprio lavoro “in quel preciso momento”, avrebbe detto Dino Buzzati, grande amico-collega di Montanelli. Il momento è quello in cui le cose accadono e il giornalista ci deve scrivere sopra subito, poco conta se in piombo per l’edicola o su uno smartphone per un sito web.
Montanelli va cancellato fisicamente, con ignominia iconoclasta, dalla memoria civile italiana, a cominciare da quella del giornalismo nazionale? Il problema non è suo: non lo è mai stato neppure quando era vivo. Il problema è tutto di chi fa il giornalista oggi e di chi vorrà farlo domani.