La salute è qualcosa di indefinito, tanto che tutti la vorrebbero, ma nessuno sa spiegare cosa è. Tanto meno l’Oms, che nel 1948 ne diede una definizione tanto bella quanto utopica: “Il completo benessere psico-fisico-sociale”.
Per capire cosa è in realtà, dobbiamo partire da un presupposto negativo, cioè chiederci: “quando sentiamo di non averla?”. E la risposta sarà non “quando non faccio i 100 metri in 10 secondi” o “quando posso comprare tutto quello che voglio”, ma “quando riesco a fare le cose che la media delle persone nel mio stato fa”; cioè la salute è legata al senso di soddisfazione. Ovviamente, non deve diventare rassegnazione, e per questo deve essere legata ad un confronto con altre persone: l’uomo è un essere sociale. Ma questa definizione ci fa capire una cosa importante. La salute è possibile anche per chi ha una disabilità o una malattia: è un diritto e una possibilità per tutti.
L’ospedale è il luogo di tutela della salute, cioè è il luogo in cui la soddisfazione della persona deve essere tutelata. Invece troppo spesso diventa luogo di insoddisfazione. Perché malato e curante hanno una visione meccanicistica della salute: se non si ottiene l’immediata scomparsa del male è un fallimento. Esiste una visione magica della salute, che porta a scontento e liti giudiziarie. E in questo collabora la trasformazione delle figure protagoniste della salute: il medico diventa “fornitore di servizi”, il malato “cliente”, l’ospedale una “azienda”.
Questa visione magica-miracolistica della medicina può solo portare a scontento, che paradossalmente si ritrova maggiormente nei Paesi industrializzati, dove l’idea che la giovinezza non sia eterna e che la medicina non sia onnicurante semplicemente non è prevista né accettata. Certo, poi esiste l’errore medico e la trascuratezza di chi cura, e questo, assieme a quanto stiamo spiegando, fa parte della malasanità, che tra le sue cause ha anche questo: la burocrazia e la perdita di interesse dei clinici.
L’ospedale è diventato un “hub”, un centro di smistamento di malati e terapie. Quando venne creato era un luogo di accoglienza, cioè “ospitale”: certo poteva arrivare a guarire molto meno di quanto si può fare oggi, ma lo sguardo era diverso, almeno a vedere gli affreschi nei grandi ospedali come il S. Maria della Scala di Siena. Oggi si entra in ospedale per essere smistati ad un servizio, ad un ambulatorio. Non si è arrivati all’idea di ospedale come strumento di cura, dove il senso di accoglienza fosse così chiaro quando si entra, che il malato già per il solo fatto di entrare in un bel luogo dovrebbe stare meglio. E sappiamo bene che l’ambiente può molto sulla cura e sulla guarigione, non solo delle malattie mentali.
Invece il lavoro nell’ospedale è troppo spesso distaccato e routinario. Esistono dei programmi di gestione dei pazienti ripresi direttamente dai programmi delle catene di montaggio delle automobili (vedi il progetto Lean); si seguono i protocolli in maniera routinaria, tanto da sentirsi dire dagli operatori la fatidica frase “non è compito mio”, solo perché così appare nel protocollo, e nessuno di conseguenza è stimolato a fare qualcosa di più della sua mansione: ci si identifica con la propria mansione. Infine, si sviluppa l’effetto “Suv” nei medici, cioè il senso fragile di sicurezza per avere a disposizione tanti rimedi e tanti test da fare, che si delega quasi il rapporto medico-paziente al laboratorio.
Questo determina insoddisfazione nel personale: negli ultimi anni, secondo l’Istituto Superiore di Sanità e il sindacato dei medici ospedalieri, si è registrato un forte aumento delle dimissioni volontarie di infermieri e medici dal Ssn: circa 2mila infermieri e 3mila medici all’anno. E insoddisfazione nei malati, che è più accorata nei malati gravi e nei disabili, che i medici, secondo un recente reportage presentato al Parlamento inglese dall’associazione Mencap, non sanno più curare perché, ligi ai protocolli e centrati sui laboratori, spesso non sanno interpretare le “stranezze” di chi non si sa esprimere.
Occorre sostituire alla medicina magica la medicina dell’abbondanza, cioè fare in modo che i pazienti sentano di essere realmente accolti: in fondo, perché si deve accettare che l’abbondanza vada solo a chi può permettersela o a chi sta bene? Credo che dovrebbe essere vero il contrario, e i governi dovrebbero accorgersene.
Si dirà che mancano i fondi. Credo che, evitando spese disastrose come quelle dovute agli sprechi dell’effetto Suv, o agli sprechi di tempo dovuti a compilare ridondanti protocolli legati all’ottenimento del budget come scopo, si risparmierebbe quanto serve. Vivere l’ospedale prima ancora di costruirlo sarebbe una soluzione: si abita prima di costruire e non il contrario, così ci dice l’etimologia della parola abitare, che significa “possedere” e per estensione “desiderare”. Quanti risparmi si potrebbero fare se la progettazione venisse ascoltando i bisogni reali di chi deve vivere e utilizzare l’ospedale.
Per questo parliamo qui di un bivio: l’ospedale non può più essere un hub di “servizi al cliente”, ma deve essere esso stesso, i suoi ritmi, i pasti che offre, le distrazioni che deve fornire, un’introduzione e un prolungamento delle cure fatte dagli ambulatori che vi si trovano. Marco Gola, architetto, parlava di “architettura ospedaliera protesica”, cioè che l’ospedale è una “protesi”, un arto in più che si offre al malato: non quello che si trova dentro l’ospedale, ma l’ospedale stesso.
Un esempio di questa trasformazione sono gli hospice, centri pediatrici o per adulti in cui la cura alla persona non disgiunge e non distingue la parte farmacologica e la parte ambientale. Florence Nightingale, la pioniera delle cure infermieristiche del secolo scorso, iniziò la sua rivoluzione dell’atteggiamento terapeutico prendendosi cura dei soldati malati e feriti nella Grande guerra, semplicemente portando l’igiene sui campi di guerra, e questo ha rivoluzionato la medicina, perché l’igiene poi è entrata finalmente negli ospedali, i medici hanno studiato come questo richiamo alla pulizia ambientale e personale fosse salvifico. E Thomas B. Brazelton, uno dei pionieri della pediatria, iniziò la sua attività non per scoprire qualcosa, ma per mostrare ai genitori cosa aspettarsi dai progressi anno per anno dei lori figli; arrivando poi a capire che questo senso di accoglienza aiutava anche a capire e curare precocemente i bambini che non arrivavano a quelle tappe che lui, osservando e parlando con centinaia di coppie, aveva descritto.
L’ospedale non può essere un centro di smistamento, e la ricerca scientifica non deve essere qualcosa che si fa senza un desiderio e una passione personale. Occorre ripartire dalla passione, dal Daimon che ognuno ha nel fare la professione sanitaria, dal desiderio, direbbe Jacques Lacan, con cui ci apriamo al reale.
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