In occasione della 109esima Giornata del migrante e del rifugiato che la Chiesa celebra oggi, domenica 24 settembre, in qualità di presidente della II Commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale della Lombardia, e insieme all’associazione LabOra e alla Fondazione FareFuturo, ho deciso di organizzare a Palazzo Pirelli una giornata di lavoro e approfondimento su un tema quanto mai attuale e oserei dire – vista la cronaca delle ultime settimane – “caldo”: il fenomeno migratorio.
La giornata di venerdì si è sviluppata in quattro diversi momenti, muovendo dal titolo: “Partire senza costrizioni. Liberi di rimanere”. Con il 21 settembre abbiamo concluso una stagione estiva in cui si sono verificati due colpi di Stato in Africa, in Niger e nel Gabon, Paesi alleati dell’Occidente e considerati “chiave” per il transito dei migranti. Due catastrofi naturali, in Marocco e in Cirenaica, hanno raso al suolo e sommerso intere aree urbane. La Tunisia, uno dei principali punti di partenza degli scafisti, è in attesa degli aiuti economici da parte dell’Fmi e dell’Ue, pena il default finanziario e l’impossibilità di pagare gli stipendi alle forze di polizia e agli uomini della guardia costiera, al fine di contrastare le partenze delle imbarcazioni che puntano sulle nostre coste. Spesso guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, sottosviluppo, mancanza di lavoro e prospettive per il proprio futuro rendono l’emigrazione una necessità. Questa, invece, dovrebbe essere sempre una scelta libera, evitando inoltre che le persone si consegnino ad organizzazioni criminali e senza scrupoli, responsabili di quello che ormai è un vero e proprio traffico di esseri umani. Traffico che, secondo rapporti Onu, ha raggiunto volumi d’affari superiore a quello della droga e delle armi. Oltretutto questa forma di schiavismo del nostro tempo ha finito per trasformare il Mediterraneo – il Mare Nostrum dei romani – in un cimitero.
Perché l’emigrazione non sia una necessità, ma l’esito di una libera scelta, occorre, come ha scritto papa Francesco nel messaggio per la giornata di oggi, “uno sforzo congiunto dei singoli Paesi e della Comunità internazionale per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare, ossia la possibilità di vivere in pace e con dignità nella propria terra. […]. Fino a quando questo diritto non sarà garantito – e si tratta di un cammino lungo – saranno ancora in molti a dover partire per cercare una vita migliore”. Queste considerazioni hanno trovato una certa sintonia con quanto ascoltato giovedì scorso in occasione dell’intervento del residente Giorgia Meloni alla 78ma Assemblea generale delle Nazioni Unite: “Con il Processo di Roma, avviato a luglio con la Conferenza su Migrazioni e Sviluppo, abbiamo coinvolto le nazioni mediterranee e diverse nazioni africane su un processo che si snoda lungo due direttrici fondamentali: sconfiggere gli schiavisti del terzo millennio da un lato, e affrontare le cause alla base della migrazione dall’altro, con l’obiettivo di garantire il primo dei diritti, che è il diritto a non dover emigrare, a non essere costretti a lasciare la propria casa, la propria famiglia, a recidere le proprie radici, potendo trovare nella propria terra le condizioni necessarie a costruire la propria realizzazione”.
I lavori del Pirellone sono stati dedicati, quindi, allo sforzo di declinare attraverso esempi concreti proprio il “diritto a non emigrare”. Diritto che diventa sempre più urgente da garantire, visto che nel solo mese di agosto sono sbarcate sulle nostre coste 25.664 persone, tra il 12 e il 13 settembre abbiamo raggiunto l’apice di 7.998 in 48 ore, oppure – altro dato significativo su cui riflettere – nel 2022 il 56% dei richiedenti asilo ha ricevuto un diniego. Nella prima fase della mattinata – moderata dal giornalista Alberto Giannoni – esperti di prestigiose realtà (la Fondazione Oasis, l’Atlantic Council e la George Washington University) hanno aiutato a comprendere le premesse di un contesto che, appunto, spinge decine di migliaia di persone a rischiare la vita per raggiungere l’Europa ed hanno illustrato la condizione presente che vivono i Paesi che si affacciano sulla sponda sud–est del Mediterraneo.
In particolare, Claudio Fontana ha riletto il ruolo giocato dalle primavere arabe nell’ultimo decennio e, riconoscendo che soluzioni facili non esistono, ha sottolineato quanto l’esplosione demografica del continente africano (che passerà da 1,5 miliardi a quasi 4 nel 2100) ci impone di pensarne di praticabili.
Lorenzo Vidino ha poi analizzato il ruolo dei network dell’islamismo politico che, spesso, sono l’unica alternativa reale a quei regimi con cui una certa intellighenzia nostrana vorrebbe rifiutarsi di stringere accordi, come per esempio quello di Saied a Tunisi con cui l’Italia ha firmato a luglio un memorandum. Rapporti di forza geopolitici ed estremismo, se certo non esauriscono la spiegazione del complesso fenomeno migratorio, sono certo elementi da tenere in considerazione: dalla presenza nel Sahel della Wagner e dei russi (sebbene secondo Mattia Caniglia non sia da ingigantire, “perché fanno quello che possono coi mezzi che hanno”) al radicalismo di ritorno, di chi magari ha conosciuto il fanatismo religioso nelle carceri europee e torna nei Paesi d’origine per alimentare guerriglie o arruolare foreign fighters.
Si è passati poi a raccogliere le esperienze di chi opera nella cooperazione internazionale o sviluppa progetti di rimpatrio assistito, perché convinti che l’Africa con il suo 60% di terre coltivabili e inutilizzate sia un continente con un significativo potenziale di crescita.
Il secondo panel, coordinato da Giacomo Gentile (impegnato con l’Associazione Pro Terra Santa in progetti di cooperazione in Siria) ha dunque presentato alcune esperienze positive. Dalla Sierra Leone John Kanu ha descritto l’esperienza del Chesterton Center, scuola autonoma nata a Oxford e poi “esportata” con successo nel suo Paese a seguito della decisione di tornare a investire lì le competenze acquisite all’estero.
Un progetto di sviluppo attivo in Senegal è stato poi illustrato da Abdou Mbar Sylla (Rete per l’eradicazione della povertà), mentre Mario Molteni (Altis Università Cattolica) ha spiegato l’attività della Fondazione E4Impact, che si occupa di formare nuovi imprenditori africani in Africa.
Quanto fatto dal Terzo settore è stato oggetto dell’intervento di Franco Argelli (Avsi), che in particolare si è soffermato sui progetti di rimpatrio assistito che negli ultimi quattro anni hanno coinvolto 200 migranti in 10 Paesi diversi, e di Sandra Sarti (presidente della sezione italiana di Aiuto alla chiesa che soffre), la quale ha illustrato il progetto del Trauma center che assiste in loco i cristiani nigeriani vittime della persecuzione di Boko haram.
Nel pomeriggio, con la moderazione del giornalista Andrea Avveduto, abbiamo avuto intorno al tavolo esponenti delle tre confessioni monoteiste che, da secoli, informano la vita dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo. L’intento non è stato tanto ispirato dal desiderio di alimentare momenti di dialogo interreligioso (sempre auspicabili), quanto dalla volontà di non appiattire gli uomini e le donne che migrano alla sola dimensione economico-lavorativa: c’è infatti un modo di affrontare il tema dell’immigrazione che riduce le persone a mere braccia da lavoro, all’insegna di una visione utilitaristica tipica di un’Europa ed un Occidente stanchi e in piena crisi demografica.
Il contributo delle comunità religiose può, dunque, rispondere non solo all’esigenza di entrare nel dialogo tra culture per favorire l’incontro tra persone e isolarne le forme di fanatismo, ma può aiutare a comprendere – ed auspicabilmente a superare – l’odio verso una fede che spesso costringe, per esempio, tanti cristiani a fuggire dal proprio paese d’origine, come del resto ci hanno ricordato le testimonianze di Aiuto alla Chiesa che soffre. Inoltre, il contributo delle comunità religiose può aiutare a rinvenire nella dimensione pubblica di società secolarizzate, come quelle dei nostri Paesi d’approdo, le ragioni di una speranza che sembra ormai sopita a cui però anela ancora il cuore di tutti; di chi parte come di chi accoglie. È stata amara la considerazione al riguardo di Vittorio Bendaud, coordinatore del tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia: “Un certo progressismo di comodo sta oggi distruggendo l’Europa”.
Riprendendo invece le riflessioni di Benedetto XVI sulla necessità che fede e ragione non siano separate, perché la prima non diventi fanatismo e la seconda non scada in razionalismo, il cardinale Angelo Bagnasco ha spiegato che “accogliere tutti non significa accogliere tutto” e che per integrare “occorre innanzitutto la volontà di essere integrati”. Molto interessante a tal proposito lo scambio finale con Maryan Ismail, prima donna imam in Italia e da sempre impegnata sul fronte della lotta contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati: sollecitata dalle riflessioni del già presidente dei vescovi europei, ha chiesto che la Chiesa stessa aiuti i musulmani ad un’autocritica e a purificare la loro prassi religiosa da ciò che più risponde ad esigenze di potere ed egemonia, rinunciando così ad accettare anche in ambito cattolico una sola rappresentazione dell’islam e a fare emergere posizioni che si rifanno a tradizioni più spirituali. Esigenza condivisa dal presidente della Confederazione degli imam di Francia, Hassan Chalgoumi, che ha spiegato quanto “dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni l’amore, la fratellanza e il rispetto dell’altro”, anche soprattutto attraverso “un lavoro enorme a livello educativo”, per esempio sulla “formazione degli imam”, “molto importante” per evitare che i giovani di seconda generazione si radicalizzino sul web.
Nell’ultimo panel l’ambasciatore Gabriele Checchia ci ha aiutato a leggere le sfide, specie in politica estera, che l’Italia ha di fronte a sé. Il governo dell’immigrazione è legato a doppio filo alla necessità di puntare sugli investimenti, lo sviluppo, la formazione, l’organizzazione di canali regolari per le migrazioni: queste sono gli obiettivi del Piano Mattei per l’Africa, come prospettato dall’attuale Esecutivo, volto a cambiare il paradigma con cui si pensa di favorire la stabilizzazione e la prosperità di quel continente. A fronte di tale approccio, che il governo Meloni vorrebbe in realtà proporre a tutt’Europa, è stato interessante il confronto con gli Stati Uniti che ci ha proposto il professor Luca Vanoni della Statale di Milano. Se il “modello americano” si regge da un lato sulla regolazione di flussi migratori attraverso un sistema “per quote” che favorisce l’ingresso di alcune categorie di stranieri a danno di altre (del resto lo stesso XIV emendamento che introduceva lo ius soli era per naturalizzare gli ex schiavi neri e i loro figli, ma non gli indiani e i figli dei migranti europei), dall’altro sull’invito a partecipare attraverso il proprio lavoro all’American dream. Non si può dire la stessa cosa per il vecchio continente, che attira certo per un generoso sistema di welfare e servizi (che alimenta per esempio le rimesse degli immigrati) ma ha rinunciato da tempo alla realizzazione di un progetto comune.
Come spesso accade l’incontro con l’altro pone quindi un grande interrogativo sulla nostra identità, su chi siamo noi e su dove vogliamo andare. Il convegno, tuttavia, non si è incaricato di fornire una risposta a tali domande cruciali, quanto invece di gettare le premesse per una riflessione di lungo periodo che provi ad uscire dalle secche dell’alternativa unica tra quanti sarebbero umani perché accoglienti e quanti sarebbero disumani perché non accoglienti. L’intento di fondo è quello di uscire dall’emotività con cui spesso ci si divide intorno al tema dell’immigrazione e rientrare nell’ambito della razionalità, che poi dovrebbe essere l’ambito privilegiato della politica.
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