Quando nel 1988 lo scienziato Antonìn Mrkos scopre un nuovo asteroide, lo identifica con un numero e il nome di una donna che stima e vuol far conoscere al mondo: 6441 Milenajesenskà. Scritto così, come un nome unico, dal momento che le regole scientifiche non consentono l’utilizzo di due parole. Milena Jesenská (1896-1944) era morta quarantaquattro anni prima nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove era stata internata per quasi cinque anni, come oppositrice del nazismo e membro della resistenza ceca. La sua storia è poco conosciuta, anche se la luce del suo fascino di donna libera, indipendente e anticonformista non ha mai smesso di pulsare, nonostante la censura dell’onnipotente Partito Comunista Cecoslovacco. A cosa si deve un simile inspiegabile ostracismo verso una donna che si era guadagnata già in vita, con coraggio, intelligenza e passione un posto tra i protagonisti della sua epoca, e più in generale della storia contemporanea?



Milena Jesenská ha pagato per intero il prezzo del suo essere una donna libera e autonoma. Estranea ad ogni schema, si ribellò alla logica borghese nella sua giovinezza e successivamente, divenuta un’autorevole giornalista, commentatrice di costume, società e politica, si ribellò a quella comunista. Dal Partito Comunista Ceco fu espulsa definitivamente con l’accusa di trotskismo nel 1934 o 35 (i documenti non consentono maggiore certezza). Un tradimento che non le fu mai più perdonato in patria e neppure tra le baracche di Ravensbrück, dove alle prigioniere comuniste, inebriate dall’entrata in guerra dell’Urss e innamorate di Stalin, obbiettava che “il nazionalsocialismo e il comunismo erano vini della stessa botte”. Una certezza che lei aveva maturato fin dai primi anni Trenta, allorché il suo secondo marito, l’importante architetto (comunista) Jaromir Krejcar, riportò dall’Urss la testimonianza diretta delle terribili purghe staliniane.



C’era poi un altro peccato, imperdonabile anch’esso, e in qualche misura connesso al primo: l’aver legato indissolubilmente il proprio nome a quello di Kafka (1883-1924), lo scrittore che i comunisti cechi (e non solo) non smisero mai di considerare un “degenerato”. Già, perché Milena Jesenská è proprio la Milena delle Lettere a Milena di Franz Kafka, la sua prima traduttrice, la sua musa-non musa: la donna che era entrata nella sua vita “come la tempesta in una stanza”. In quella stanza Milena rimase stabilmente per soli dieci mesi, nel 1920, mesi che furono sufficienti a ridare allo scrittore quello sprazzo di vitalità che ha alimentato, i pochi, difficili anni che gli sarebbero rimasti da vivere.



 Il silenzio su Milena Jesenská fu rotto solo dalla prima pubblicazione, nel 1952, delle lettere che Kafka le aveva indirizzato, ma prima che nella Cecoslovacchia comunista fosse lecito anche solo sussurrare in pubblico il suo nome, sarebbe passato un altro decennio. Nel 1969, in piena Primavera di Praga, le Lettere a Milena furono finalmente tradotte in ceco, ma a “normalizzare” la situazione arrivò immediata – non richiesta – la repressione sovietica. I progetti editoriali che riguardavano Milena naufragarono miseramente, in particolare il libro Destinatario: Milena Jesenská della figlia Jana Cernia tornava a circolare solo come samizdat e il manoscritto della biografia Mytus Milena a cura dall’amica Joroslava Vondrackova veniva restituito dall’editore con mille scuse.

Per molto tempo l’unica opera di spessore dedicata a Milena Jesenská è stata la biografia che Margarete Buber-Neumann – una donna speciale per Milena, amica, compagna di prigionia per quattro lunghissimi anni, testimone diretta della sua morte e destinataria del suo lascito spirituale – riuscì infine a mandare alle stampe nel 1963, in lingua tedesca, con il titolo Milena Kafkas Freundin (tr. itMilena, l’amica di Kafka, Adelphi 1977). Prima ancora Margarete Buber-Neumann aveva parlato di Milena nella sua opera fondamentale Prigioniera di Stalin e di Hitler, pubblicata nel 1949. Il progetto di questo libro imprescindibile, che per Angelo Bolaffi “entra a far parte della biblioteca spirituale del nostro tempo”, è il frutto di un progetto che Milena Jesenská aveva lucidamente formulato già nel 1940. Le due amiche lo avrebbero scritto a quattro mani una volta sopravvissute all’inferno di Ravensbrück. La storia andò invece in un altro modo. Così l’impegno di portare a termine l’opera ricadde su “Grete”, tra le due prigioniere quella completamente sprovvista di talento per la scrittura. “Io non ero in grado di scrivere una riga – ricorda Margarete Buber-Neumann – ma lei era talmente infervorata da questo progetto che neppure si accorse del mio sgomento. (…) quando mi tornò la parola e replicai timidamente che non sapevo scrivere affatto, lei si fermò davanti a me, mi afferrò dolcemente per il naso come si fa coi cagnolini e disse: ma Gretuschka, una persona che sa raccontare come te sa certo anche scrivere. (…) non c’è nessuno che non sappia scrivere, a meno che non sia proprio analfabeta. Tu sei solo stata rovinata dalle scuole prussiane. Continui ad aver paura del compito in classe!”.

Nel maggio di quattro anni dopo Milena Jesenská moriva per una grave insufficienza renale, che nel campo di concentramento le fu fatale. Un giorno, poco prima di morire, Milena lasciò un altro compito all’amica: “So che almeno tu non mi dimenticherai. Per merito tuo posso continuare a vivere. Tu dirai agli uomini chi ero, sarai il mio giudice clemente”. Queste sono le parole che hanno dato a Margarete Buber-Neumann il coraggio di scrivere la storia della vita di Milena, l’amica di Kafka. 

Nel libro solo un capitolo su ventidue riguarda la relazione di Milena Jesenská con Franz Kafka. Sono pagine importanti che raccolgono la sua testimonianza diretta. Esse aiutano a colmare un vuoto, perché le lettere di Milena a Kafka sono andate perdute. Tuttavia, l’opera di Buber-Neumann trascende la relazione con Kafka e ne risulta completamente autonoma. Il merito, prima che dell’autrice, è della vicenda umana e intellettuale di Milena Jesenská la quale brilla di luce propria. Gli studi più recenti che su di lei sono stati fatti l’hanno restituita alla storia del popolo ceco come una delle sue personalità più eminenti, e sono alla base della proclamazione di Milena Jesenská come Giusta tra le Nazioni da parte dello Yad Vashem (1994). Un’onorificenza che certo avrebbe apprezzato più di un premio Pulitzer.