Se il nostro io non fosse stato trasformato in dati e i dati diventati merce appetitosa per molti, non ci preoccuperemmo della loro tutela; e la giornata della tutela dei dati personali, che si celebra il 28 gennaio non avrebbe nessun senso. In realtà la tutela-dati riguarda un processo commerciale enorme, dove il miglior venditore e il miglior compratore si giocano migliaia di informazioni che valgono milioni. Ma la importanza di questa giornata diventa mille volte maggiore se affrontiamo un “non detto”, un indicibile peccato originale alla base del nostro vivere. Quale? Questo: noi non siamo più noi, ma ci siamo trasformati nei dati che ci descrivono.



I  social network come MySpace, Facebook, Twitter, sono servizi che le persone utilizzano per connettersi tra di loro e condividere informazioni come foto, video e messaggi personali.
Così come è aumentata negli ultimi tempi, la popolarità di questi servizi, si è verificato un uguale incremento dei rischi derivanti dalle attività di hackerspammer e altri cybercriminali. Che si infiltrano tra le maglie dei nostri dati, li comprano, li rubano. E noi, definiti da numeri e codici, siamo diventati oggetto di attacco.



Questo non sarebbe stato possibile se non avessimo accettato di trasformare la nostra identità in dati (protocolli, contratti di lavoro, mansionari, orari, sigle varie). Abbiamo un impiego e questo impiego è un codice nella nostra azienda e il nostro lavoro non è più lavoro, ma la somma di  protocolli, tutti catalogati e seriati. Se ci ammaliamo la nostra malattia è codificata in un IDC (International disease code) che va a sommarsi ad altre diagnosi del ricovero in un DRG (diagnosis related groups). Abbiamo un codice di telefono, un codice PIN bancario; siamo un IO, un CI, un CF.

Quando i codici erano pochi – il numero di telefono o la targa della macchina -, li conoscevamo e gestivamo; da quando hanno superato una certa soglia sono cambiati di natura, direbbe Hegel: invece di essere una cosa “tua”, sei tu che sei diventato “loro”, cioè qualcosa che non gestisci tu. Abbiamo ridotto il nostro io alla mansione e la mansione a numeri, e i numeri – per esempio gli zeri dell’assegno di stipendio – sono diventati il nostro io. E il nostro lavoro è diventato solo ed esclusivamente i protocolli che dobbiamo seguire e i dati che ne derivano: guai a fare un passo in più, guai a rammendare la camicia se il nostro protocollo era di lavarla, guai a dare per gentilezza al paziente un farmaco per il mal di testa se il nostro protocollo diceva di guardare solo i nei. Se il lavoro non è protocollato non è trasformabile in dati e allora è obbligo non farlo. Siamo funzionari di una funzione, siamo in funzione di una funzione e la funzione è un codice, che ci dà l’azienda come matricola, come obiettivo, come limite invalicabile. Se sparisce il nostro codice IBAN o la password di Facebook scompariamo noi.



Lo sappiamo: Il diritto alla protezione dei dati personali è un diritto fondamentale dell’individuo ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 8)” e secondo quanto scrive Guido Scorza , membro del comitato Per la Privacy dei Dati Personali,  bisognerà vigilare che i dati per esempio raccolti col contact tracing in corso di Covid vengano cancellati e non usati come appare avvenire in alcuni Paesi per scopi di ordine pubblico; o che il problema ancora più grave della retention dei dati di traffico telefonico o della monetizzazione dei dati personali siano risolti. Ok, ma attenti: questo furto avviene quando i dati sono diventati il nostro io; per questo il furto di dati è gravissimo; ed è ancor più gravi che noi siamo diventati contenti di essere trasformati in dati. Come direbbe il filosofo Gunther Anders, non è tutto più facile quando è tutto per noi codificato? Quando tutto invece di essere un discorso diventa un dato? Ci rubano i dati; ma prima hanno trasformato il nostro spirito, come in una sorta di effetto-Chernobyl, in un codice a barre obbligandoci ad esserne contenti.