Tra il gennaio e il marzo 1947 quasi 30mila persone abbandonarono la città di Pola in forza del Trattato di Pace del 10 febbraio 1947. Lo storico Roberto Spazzali ha ricostruito nei dettagli questa tragica storia nel libro appena uscito Pola città perduta. L’agonia, l’esodo (1945-47) (Ares, 2022). In occasione del Giorno del ricordo (10 febbraio) ne ha parlato con il Sussidiario.



Qual era la situazione di Pola al termine della guerra? Che aria si respirava?

La situazione a Pola era molto complessa ed era la sintesi della storia che l’aveva contraddistinta dalla metà dell’Ottocento. Piccola città di antica origine, con significative tracce della civiltà romana poi bizantina e quindi veneziana. Con il trattato di Campoformido entra nel consesso asburgico che conserverà fino al 1918. Dal 1856 il corso della sua storia cambia: da piccolo centro diventa una città-fortezza con uno sviluppato indotto industriale. E diventa pure città di immigrazione per la popolazione istriana e pure dai territori croati, friulani e veneti. Già la Prima guerra mondiale segna il suo destino, diventando Pola obiettivo di bombardamenti aerei. Cresceranno inoltre le tensioni conseguenti le rivendicazioni croate e jugoslave sull’Istria e sulla città in particolare. L’annessione al Regno d’Italia depotenzia il suo arsenale navale, ma le conferisce il ruolo di capoluogo della provincia istriana. Cambia anche una buona percentuale dei suoi abitanti, con l’esodo di famiglie di lingua e cultura tedesca e croata e l’arrivo di quelle italiane attratte dalle opportunità occupazionali.



E così arriviamo al secondo conflitto mondiale.

Vista la sua funzione militare, Pola vive direttamente le condizioni poste dalla Seconda guerra mondiale, accentuate dall’occupazione della Jugoslavia da parte degli eserciti dell’Asse: un lungo preludio al progressivo stato d’assedio che conoscerà nei giorni delle foibe dell’autunno ’43, nei violenti venti mesi di occupazione nazista, nei durissimi 45 giorni jugoslavi e negli ulteriori 27 mesi di presidio britannico. Va precisato che con la fine della guerra tra anglo-americani e jugoslavi si giunse a un accordo provvisorio sulla Venezia Giulia con la divisione in due zone di occupazione, di cui quella jugoslava rappresentava i quattro quinti dell’intera superficie regionale. Il Governo militare alleato si insediò a Gorizia, Trieste e Pola. Quest’ultima era totalmente isolata e collegata a Trieste tramite una sola strada che si doveva percorrere senza soste intermedie e una linea marittima trisettimanale.



Un isolamento vero e proprio.

Sì. Questo isolamento si trasformò in vero e proprio assedio materiale con il blocco economico da parte jugoslava. Gravissime le ripercussioni sulla popolazione residente che passava da speranze a illusioni, da euforia a depressione. Poi, la notizia, agli inizi del luglio 1946, che la Conferenza di pace aveva stabilito la costituzione di un territorio libero ma solo per Trieste e una area limitrofa, e la conseguente cessione di tutta l’Istria, le isole del Quarnaro e Zara alla Jugoslavia, provocò il cosiddetto “plebiscito morale”, cioè l’apertura a Pola dell’Ufficio di assistenza per l’esodo e l’iscrizione di oltre 20mila persone alle liste di esodo. Ma coloro che si stavano allontanando o si erano già allontanati dall’Istria, Fiume e Dalmazia, erano assai di più e alcuni documenti indicano 100mila persone per quel primo esodo tra il 1945 e il 1947.

Uno dei capitoli più drammatici del suo libro riguarda la strage del 18 agosto 1946. Una serie di ordigni esplose sulla spiaggia di Vergarolla massacrando decine di persone. C’è ancora nebbia suoi responsabili. Qual è la sua ricostruzione?

Non ho aggiunto elementi clamorosamente nuovi a quanto già noto, detto e ricostruito. Però alcuni dettagli sono emersi dall’esame di fonti inedite. In primo luogo, il mese di agosto è caratterizzato da un’offensiva di aggressioni, attentati, violenze portate a segno dai filo-jugoslavi a Gorizia, Trieste, nell’Istria sotto il controllo jugoslavo e infine a Pola. È chiaro il disegno di creare i presupposti dell’incidente con gli anglo-americani e scatenare un conflitto a bassa intensità tra la popolazione. In quel momento le organizzazioni italiane erano sulla difensiva. Certe ricostruzioni proposte in passato sono lacunose e omissive su quel periodo.

Continui.

Nei bollettini di Radio Venezia Giulia – la radio clandestina messa in opera dal ministero degli Esteri italiano e diretta dallo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini – per fortuna rimasti integri e conservati a Venezia, emergono alcune interessanti notizie: pochi giorni prima della strage, durante una manifestazione pubblica, alcuni giovani italiani di Pola erano stati minacciati da coetanei filo-jugoslavi che accennarono a un imminente grave atto. Pochi giorni dopo, Radio Venezia Giulia aveva già escluso, in una corrispondenza stesa da persona esperta, che la strage fosse di origine casuale. Devo dire che il governo italiano rimase piuttosto defilato anche nell’espressione ufficiale di cordoglio ai parenti delle vittime e intervenne qualche mese più tardi assegnando loro un contributo piuttosto modesto. L’atteggiamento potrebbe essere spiegato nella volontà di non urtare la sensibilità del Governo militare alleato che aveva le sue gravi responsabilità e di non compromettere ulteriormente le trattative alla Conferenza di pace.

Tra il gennaio e il marzo 1947 ci fu il grande esodo da Pola: come venne realizzata l’operazione?

Dalla fine di agosto il governo italiano iniziò pensare all’esodo di coloro che avrebbero voluto partire, senza svuotare la regione della presenza italiana, ma la pressione che giungeva dalla maggioranza della popolazione era di segno opposto. Non solo italiani ma anche sloveni e croati contrari al regime comunista di Tito. Al ministero dell’Interno era attivo l’Ufficio Confini che generò l’Ufficio per la Venezia Giulia, diretto dal prefetto Mario Micali. Venne aperta una sede distaccata a Venezia alla quale fu incaricato il viceprefetto Giuseppe Meneghini che predispose un piano di evacuazione di Pola rimasto però in sospeso per diversi mesi, in quanto il governo italiano non voleva dare un’impressione rinunciataria. A Pola venne inviato il col. Armando Mazzocchi per organizzare l’esodo. Il piano riguardava solo la città di Pola e non contemplava l’esodo del resto dell’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Solo agli inizi del 1947 l’assistenza venne estesa e non senza qualche difficoltà, in quanto il certificato di esodo era inizialmente previsto solo per i partenti da Pola, non per coloro che provenivano dalla cosiddetta Zona B della Venezia Giulia che poterono ottenerlo nell’apposito Ufficio di assistenza allestito a Trieste. La complessa azione di Giuseppe Meneghini trovò sostegno pratico in Mario Micali, in Gino Palutan a Trieste, in Giuseppe Giacomazzi a Pola, nell’on. Antonio de Berti a Roma, in mons. Ferdinando Baldelli presidente della Pontificia commissione di assistenza, e quello politico dal sottosegretario all’Assistenza postbellica on. Giovanni Carignani e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio on. Paolo Cappa. Decisivo.

Qual era l’obiettivo?

Non si trattava solo di portare via la gente e ben 150mila metri cubi di masserizie, arredi di negozi, merce e attrezzi da lavoro, ma di dare loro una sistemazione. Realizzati un po’ ovunque centri di raccolta profughi, si trattò di trovare una sistemazione, anche in piccoli centri e offrire un lavoro, assistenza scolastica, sanitaria e sociale. Allora lo Stato operava tramite le prefetture e devo dire che, a fronte dei molti problemi derivati dal rimpatrio dei connazionali dalle colonie, dai reduci della prigionia e internamento, dai sinistrati e sfollati, trovarono il modo di sistemare faticosamente tutti. Con le possibilità di allora, ma evitando ben più gravi tensioni sociali. Per le masserizie furono trovati dei magazzini a Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona e Brindisi, attivi per un prolungato periodo.

Tra i personaggi di spicco di questa storia ci sono due grandi dimenticati. Possiamo ricordarli? Uno è il prefetto Giuseppe Meneghini.

Giuseppe Meneghini era un funzionario di secondo rango del ministero dell’Interno. Viceprefetto all’epoca con ruoli in località di provincia. Distintosi durante la Grande guerra, aveva conosciuto quattordici mesi di prigionia. Era stato vice podestà a Venezia e successivamente commissario dei prezzi a Padova, dove era entrato in urto con il federale del fascio repubblicano. Riuscì a sottrarsi all’arresto e a riparare in Svizzera mentre veniva condannato in contumacia a vent’anni di reclusione. Era tra i pochi funzionari ministeriali in Italia settentrionale che non aveva aderito alla Repubblica sociale. Conclusa la sua missione per Pola, intraprese la carriera prefettizia in diversi capoluoghi di provincia.

L’altro è il vescovo di Parenzo e Pola mons. Mario Radossi.

Mons. Raffaele Mario Radossi, dell’Ordine dei frati minori conventuali, consacrato vescovo di Parenzo e Pola nel gennaio 1942, si trovò a gestire la diocesi in un momento dolorosissimo: retrovia di guerra, sconvolta dalle violenze dell’autunno ’43 a cui fecero seguito quelle nazifasciste. Dal giugno 1947 la sua diocesi era completamente sotto il controllo jugoslavo, con l’esclusione di Pola, e la sua attività pastorale fu pesantemente ostacolata e impedita con intimidazioni e violenze contro la sua persona e la persecuzione e la morte dei suoi sacerdoti. Mons. Radossi rimase a Pola fino al 14 aprile assicurando assistenza materiale e spirituale con il superstite clero e gli ordini religiosi rimasti sul posto. Se ne andò quando nella città erano rimasti solo coloro che erano obbligati per motivi di servizio e quelli che avevano scelto comunque di rimanere. Nel 1948 fu nominato arcivescovo di Spoleto.

Perché la storia di Pola è stata così a lungo rimossa?

Più che rimossa, è una storia che è rimasta confinata negli ambienti della pubblicistica dell’esodo e per decenni non ha trovato una casa editrice di livello nazionale che se occupasse. Il caso di Pola, poi, è particolare perché è l’unico capoluogo di provincia ceduto per effetto del Trattato di pace e inoltre era città dello Stato italiano anche se amministrata dal Governo militare alleato. Anche per quest’ultimo motivo, i diplomatici italiani si rifiutarono di consegnare la città di Pola direttamente nelle mani jugoslave, preferendo consegnarla agli Alleati che a loro volta l’avrebbero data ai rappresentanti della Jugoslavia.

A chi dava fastidio ricordare questa vicenda, che da Pola, in realtà, si allarga a tutto il confine orientale?

Penso che la lunga rimozione della storia del confine orientale abbia due fondamenti: l’impressione diffusa anche in ambienti democratici che quella terra non era del “tutto italiana”, mettendo così in crisi quel mito della “vittoria mutilata” di cui il nazionalismo postbellico si era nutrito; e poi il fatto che la perdita di quel territorio non solo vanificava il tributo di sangue della guerra precedente, ma rammentava all’Italia e agli italiani la rovinosa sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Inoltre, politicamente la questione di Trieste era stata chiusa nel 1954, in un contesto in cui la Jugoslavia di Tito non era più considerata dall’Alleanza atlantica una minaccia, al più poteva essere uno scomodo vicino per l’Italia. Ma la vera “scomodità” era soprattutto la mancata soluzione data al risarcimento dei beni sequestrati o abbandonati. Ed è, come lo era, un problema dell’amministrazione statale italiana.

(Alessandro Rivali)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI