Salvatore Colasberna, presidente di una piccola cooperativa edilizia, è vittima di un omicidio sul quale deve indagare il capitano Bellodi, carabiniere di origini emiliane e fermo protettore della legalità. Quest’ultimo, convinto di essersi avvicinato alla risoluzione del caso, convoca in caserma i familiari della vittima per esporre i fatti da lui ricostruiti, destreggiandosi tra ostacoli di bugie e omertà. Tra le tante lettere anonime ricevute, contenenti tentativi di sviare le indagini, una lo ha condotto sulla strada giusta: gli appalti.



Ricostruisce i fatti attraverso un’ipotesi graduale, quasi un’insinuazione, con un linguaggio volutamente allusivo ma volto a mandare un messaggio chiaro: ci sono dieci imprese edili nella provincia, e ognuna deve controllare i propri attrezzi senza mai lasciarli incustoditi. Qui la mafia interviene: attraverso la minaccia di distruggere tali attrezzi, costringe a chiedere protezione, la quale però non si limita solo a questo ma regolamenta gli appalti, conferisce informazioni sulla concorrenza in merito alle aste pubbliche e tiene buoni gli operai. Tuttavia capita che qualcuno sia più testardo e non accetti il ricatto, diventando automaticamente un cattivo esempio da mettere a tacere.



Nonostante l’evidenza dei fatti, i parenti di Salvatore si mostrano reticenti, scettici e diffidenti, limitandosi a negare di aver mai sentito parlare di questa faccenda.

In questo brano, come in altri de Il giorno della civetta, non si parla mai in maniera esplicita della mafia: il lettore può soltanto dedurre grazie a riferimenti abilmente costruiti da Sciascia, come nel caso delle perifrasi “gente che non dorme mai”, “la protezione che l’associazione offre” e “il coltello alla gola”, facendo così trasparire alcune delle caratteristiche della criminalità organizzata, quali il perenne controllo, le minacce e l’impossibilità da parte delle vittime di sottrarsi al sistema. 



Un altro riferimento indiretto è l’espressione “qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettare la protezione della mafia”; con “qualche fatto” Sciascia, attraverso le parole di Bellodi, si sta riferendo in generale a soprusi, ricatti e violenze, tipici strumenti utilizzati dalla criminalità organizzata per indurre le vittime ad accettare le condizioni imposte. Contestualizzando nel caso specifico, sta facendo rifermento alla minaccia di distruggere gli attrezzi delle ditte.

Se il capitano utilizza allusioni, Giuseppe Colasberna invece si avvale poche frasi coincise, limitandosi a dissentire e negare, supportato dal linguaggio non verbale degli altri familiari. Questi inizialmente si consultano attraverso sguardi che sottendono l’omertà condivisa e poi annuiscono con aria stravolta alle negazioni di Giuseppe. 

Tale mimica può essere letta su due piani: dal punto di vista dei familiari è un segno di sostegno reciproco nel voler alzare un muro di omertà, mente per il lettore – e per Bellodi – funge da conferma alle ipotesi malavitose, rendendo evidente il non collaborazionismo e il non saper argomentare una risposta vera e propria.

Il capitano Bellodi, per esporre la verità che ha dedotto, si avvale di un particolare ma funzionale registro espressivo, caratterizzato da stile paratattico, presenza di molteplici reiterazioni, utilizzo dell’impersonale o al massimo di appellativi generici e lessico semplice seppur allusivo. Tutti questi espedienti sono finalizzati a presentare in modo graduale i concetti e a persuadere sia gli interlocutori sia il lettore. 

Sciascia, nel 1961, porta per la prima volta all’attenzione del pubblico il fenomeno mafioso, denunciandone i metodi, la struttura e soprattutto le coperture istituzionali. Il capitano Bellodi incarna il servitore dello Stato che, senza accettare alcun compromesso, lotta per il trionfo della giustizia; egli riesce a risolvere il caso nonostante l’omertà diffusa, individuando i colpevoli e procedendo al loro arresto. È proprio qui però che si innesta la rete di rapporti di cui la mafia si avvale per poter esercitare e mantenere intatto il suo potere: grazie alla complicità di politici e magistrati corrotti, i responsabili tornano in libertà e la stampa locale avvalla la teoria del crimine passionale. Gli sforzi del capitano vengono così resi vani e con loro anche il tentativo di far prevalere la giustizia e la verità.

Sciascia rende evidente come gli interessi dei mafiosi e quelli della classe politica coincidano, costituendo così quel clientelismo che fin dalle origini ha segnato negativamente la storia italiana; fenomeno, questo, caratterizzato da stanziamenti pilotati delle risorse finanziarie e da assegnazioni poco trasparenti di appalti.

Per assicurarsi il controllo del territorio, la mafia ha due punti forti su cui contare: la protezione dei poteri corrotti e l’omertà della popolazione, spiegata dal fatto di dover convivere costantemente con il presagio che tutto possa essere da un momento all’altro stravolto.

L’unione tra la mafia, che per eccellenza rappresenta l’illegalità, e lo Stato, che dovrebbe essere il garante della correttezza, è ciò che, forse, ha contribuito a creare tanta sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche. D’altronde, anche Giovanni Falcone aveva detto: “Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?”.

Giulia Citron

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