Nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri fatto di celebrazioni, convegni, incontri, mostre si corre un sottile rischio: quello di considerare l’opera del grande poeta come il tutto pieno di un genio universale e inarrivabile. “La fama di Dante è stata sin qui il maggior ostacolo alla sua conoscenza e ad un suo studio approfondito, e lo rimarrà a lungo” (O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, Il melangolo 1994).
Questa affermazione, apparentemente paradossale, mette in luce la necessità di non dimenticare il soggetto della scrittura e la sua esperienza, provando a immedesimarsi con ciò che muove l’autore nel proprio tempo. Il geniale poeta russo cerca perciò di paragonarsi a Dante, a partire dalla sua vita e da una certa comunanza di destino: paura, esilio, nostalgia, visione dell’Inferno, attraversamento verso un oltre. E individua, così, in Dante “un enorme squilibrio interiore” simile al suo, che lo spinge a cercare, ad andare, a camminare, battendo “sentieri di capre”. Il disio fa sì che nel sommo poeta “filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi”. E Dante è un essere umano come noi che soggiace alla paura: sentimento che talvolta attanaglia, ma non ferma. “La paura mi prende per mano e mi guida. Un guanto bianco di filo. Un mezzo guanto. Io amo, io stimo la paura. Stavo per dire: ‘Con lei non ho paura’” (O. Mandel’štam, Il francobollo egiziano, Einaudi 1980). Insomma “Dante è un poveraccio” che fa gaffes ed è caratterizzato da un’inquietudine spirituale e una smarrita goffaggine “che accompagnano ad ogni passo un uomo senza fiducia in sé stesso”. Egli senza una guida, senza una persona a cui guardare – “il dolce padre” Virgilio prima e Beatrice poi – non sarebbe letteralmente in grado di mettere bene i piedi per camminare.
È proprio questa consonanza, questa consanguineità, questa comunanza intravista che fa sì che Mandel’štam decida di portare con sé Dante alla Lubjanka, dopo l’arresto. Non si tratta, qui, della compagnia di un libro famoso e utile, ma di un metodo per affrontare la realtà. E proprio come chi ha “lo inferno in gran dispitto” (Inf., X, 36), il poeta russo descrive il čekista Christoforyč come un dannato in cui “tutto è capovolto e tutto alla rovescia”. Per chiamare Inferno l’Inferno, insomma, bisogna essere consapevoli che c’è ben Altro, “di più”. La notte prima dell’arresto, infatti, riceve degli ospiti, tra cui Achmatova. Manca di tutto, perciò chiede ai suoi vicini un uovo e prima di esser condotto via, Achmatova lo convince a portare con sé quel povero uovo.
Un’umanità spaventata, claudicante, dunque, ma donata e inesorabilmente diversa in cui “il cammino non è docile/ non è servo”. “Chi vive è incomparabile” perché cammina cosciente del suo debole passo verso un destino unico, nonostante un’epoca di lupi. E a Mandel’štam, diventato nel cerchio infernale del Gulag un dochodjaga allo stremo delle forze e prossimo alla morte, battono letteralmente le ossa per il gelo. Ma in lui come in Dante c’è qualcosa che oltrepassa il finito, il terribile dato visibile, vincendo. E al čekista pronto a dire che “il terrore è utile alla poesia” rispondono, infine, questi versi: “Dove c’è più cielo per me, là sono pronto a vagare/ e una chiara nostalgia non mi lascia andare/ dalle colline ancora giovani a Voronež/ a quelle universali che rischiarano in Toscana” (O. Mandel’štam, Quaderni di Voronež, Mondadori 1995).
Si tratta di parole scritte nel colore di uno sguardo che come quello di Dante è “amico per la vita di tutti i vivi”.
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