Alcuni giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato un contributo a firma di Alessandra Sarchi, dal titolo «Ci siamo adeguati a ogni restrizione. Ora ritroviamo in noi il desiderio». Non ho potuto evitare di sentirmi chiamato in causa.

Sebbene sia iscritto al secondo anno di dottorato, sono considerato di fatto uno studente. Credo, perciò, di rientrare nel gruppo di coloro che, usando le parole della Sarchi, «con docilità e passività si sono adeguati alle chiusure delle loro aule», che hanno interrotto «quel minimo di processo di emancipazione e di scoperta che lo stare fuori comportava» e che fronteggiano il «problema […] dell’aver voglia». Rimanendo su un livello superficiale della questione, mi ha colpito constatare che quei giovani, oggi tacciati di inerte accondiscendenza nei confronti delle restrizioni imposte loro, sono gli stessi che, fino a un paio di settimane fa, venivano accusati di fomentare il contagio con i loro atteggiamenti irresponsabili (spesso solo presunti), prima di essere sostituiti nel ruolo di capro espiatorio da chi ha avuto l’ardire di scendere in strada e recarsi nei negozi per gli acquisti di Natale (che scriteriati!). Quanto mi preme realmente comunicare è, però, qualcosa di più profondo. Non posso negare di ritrovarmi spesso sopito o nel timore – di un domani sconosciuto, di sbagliare, di non essere all’altezza – tanto da vivere la tentazione di chiamarmi fuori dalle contese quotidiane, piccoli o grandi che siano. È altrettanto vero, tuttavia, che se guardo alla mia esperienza personale, ai miei amici, a tanti e tante giovani di cui mi è dato di leggere o sentire parlare, la definizione di docili, passivi e ormai privi di desideri mi pare clamorosamente parziale: noi non siamo solo questo. Lo dico avendo in testa nomi e cognomi di giovani che, proprio in un anno come quello che si è appena chiuso, non hanno rinunciato a scommettere su un presente e un futuro buoni, per i quali vale la pena prendersi dei rischi e fare fatica.



C’è chi ha detto sì a un progetto di vita comune, nonostante le ristrettezze economiche e l’incertezza sul futuro. C’è chi, per farlo, è persino andato in un altro paese, nonostante la lontananza da casa e una nuova lingua da imparare in lockdown. C’è chi non ha rinunciato alla ricerca di un lavoro, nonostante lo scoraggiamento per mesi di mancate risposte ai curricula inviati. C’è chi, da giovane laureato in medicina, si è volontariamente reso disponibile per aiutare a fronteggiare l’emergenza, nonostante le avversità della situazione e l’incertezza sull’accesso alla specializzazione. C’è chi si è posto il problema di come mettere a disposizione ciò che sa fare o che sta imparando per il bene della comunità. C’è chi, senza sensazionalismi, ha semplicemente continuato a fare del proprio meglio nello studio, nel lavoro e nei compiti di tutti i giorni. Tutto questo, nonostante la pandemia.



Il timore e il torpore ci sono, ma non sono i soli. Cosa mi aiuta a superare la mia paura? Cosa mi aiuta a tornare a desiderare?

Da un lato, vedere altri vivere vite coraggiose, ricche di speranza, spese generosamente, presenti alle piccole sfide quotidiane senza omettere fatiche e preoccupazioni: questo mi ricorda che è possibile, restituisce appetito, fomenta una sana invidia e, a volte, dona persino il coraggio di osare. Dall’altro, avere qualcuno che scommette su di me quando io stesso non lo farei, che non si ferma a quello che non so fare, che si fida di me e che mi stimola a tirare fuori il meglio.



Nel turbinio della vita che ci circonda, non è facile individuare simili esempi. Scevro da ogni intento polemico, ma nella speranza di suscitare una domanda come quelle che mi ha generato l’articolo della Sarchi, osservo: non è facile individuare simili esempi neanche tra i “grandi”, tra chi è più avanti di noi. Noi giovani saremo anche pieni di difetti e fragilità ma, se alziamo la testa, chi vediamo? Cosa troviamo ad attenderci? Una mano tesa, disponibile a farsi afferrare e ad accompagnarci con fiducia per un pezzo di strada, oppure un dito puntato, pronto a ricordarci che “ai nostri tempi era diverso”?

Concludo esprimendo un desiderio: che si lasci spazio – perché no, anche sulla carta stampata tra un’intervista al virologo e una bozza di Dpcm – a esempi di vite buone e di “mani tese”. Sia mai che, magari, a qualcuno torni il desiderio di imitarle, andarle a cercare, afferrarle.

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