Si sente nell’aria qualcosa di nuovo e speriamo non si torni all’antico, giusto per ricordare il monito del Pascoli. In effetti fra risultati delle vaccinazioni, inizio dell’estate e avvio della ripresa economica si sente vicina la fine della parte peggiore dell’incubo pandemia. I lockdown sembrano questioni passate e il ritorno alla normalità appare a portata di mano.



In questo clima apparentemente solo roseo si sono però inseriti i primi problemi legati a strettoie sulla strada della ripresa economica. Si era capito da subito che questa crisi aveva effetti diversi dal solito. L’asimmetria con cui ha colpito i diversi settori economici ha inciso, con effetti talvolta completamente nuovi, anche sui lavoratori. Ha messo in luce che il sistema degli ammortizzatori sociali copriva meno del dovuto e che per le categorie più deboli sul mercato, giovani e donne, avevano scarso effetto. Una ripresa economica che si può ritenere impetuosa sconta comunque questa asimmetria. Non tutto ripartirà subito e ci saranno nuove divisioni fra tutelati e non tutelati.



Ha però destato stupore che fin dai primi giorni della fiducia nella ripresa siano partite lamentele sulla mancanza di manodopera disponibile per molti settori che hanno bisogno di recuperare velocemente capacità produttiva. La questione ha un risvolto molto serio. Nell’asimmetria di questa crisi pesa il fatto che ha colpito la domanda in molti settori, ma ha anche creato vincoli all’offerta di beni e materie prime. Il nostro sistema produttivo sconterà su questo problema il rischio di una crescita inferiore alle attese se non si riuscirà ad assicurare canali di rifornimento per materie prime e semilavorati che ci permettano di tornare rapidamente a sfruttare appieno la nostra capacità produttiva.



Il dibattito pubblico è stato però caratterizzato dai lamenti dovuti alla difficoltà a trovare lavoratori disponibili denunciata da imprenditori del settore dei servizi alla persona. Che ciò succeda in piena ripresa e dopo un periodo di forte crescita della disoccupazione lascia certamente stupiti. Vediamo però di fare un po’ di chiarezza. Dire che i giovani hanno poca voglia di lavorare, che mancano completamente dell’etica del lavoro e che non sono preparati professionalmente per rispondere alle esigenze delle imprese può cogliere pezzi di verità, ma non fa fare nessun passo avanti. Soprattutto non scioglie i nodi fra esigenze di breve periodo e la necessità di interventi strutturali.

La difficoltà della transizione fra scuola e lavoro è un fatto che si trascina da anni. Non siamo un Paese amico dei giovani da qualche decennio. Creare un efficace sistema duale di formazione professionale, un’alternanza scuola lavoro che sia normalità e non eccezione, politiche dell’orientamento e politiche attive del lavoro, richiedono tempi lunghi anche se è indispensabile che partano dai prossimi giorni.

Più a breve è la necessità di rivedere un sistema di sussidi, slegati da qualsiasi condizionalità lavorativa, che rendono spesso più favorevole la scelta di avere reddito di cittadinanza o Naspi e magari attività in nero che accettare le offerte correnti sul mercato. Anche questa osservazione va però riportata alla realtà di un Paese con forti squilibri geografici: 500 euro sotto Roma sono un reddito che motiva comportamenti che sviliscono il lavoro e fanno sì che solo chi ha il posto pubblico, più ovviamente i professionisti che vivono però anche loro di spesa pubblica, siano quelli che ce l’hanno fatta. Agli altri restano la sopravvivenza coi sussidi e l’emigrazione. Oltre ai raggiri sempre a spese del pubblico di sussidi non dovuti, finti invalidi, ecc. Il resto del Paese ha invece necessità di redditi maggiori per coprire il costo della vita. Perché possiamo essere convinti che il lavoro è espressione della nostra umanità e della nostra necessità di intessere relazioni con gli altri, ma se non basta ad assicurarmi le risorse necessarie per mantenere me ed eventualmente la mia famiglia diventa solo un appello moralistico che non aiuta a leggere il desiderio che alimenta i comportamenti giovanili di questo periodo.

Prendiamo sul serio quanto sta emergendo. Abbiamo di fronte la generazione che ha più investito in formazione, almeno secondo quanto (è poco ma è quello che hanno trovato) gli ha offerto lo Stato italiano. Sono disponibili a fare di tutto. Tanto è vero che molti vanno all’estero a condizioni di orario e trattamento che qui paiono rifiutare. Allora c’è forse da approfondire la domanda sul perché.

Partiamo da esempi facili per tutti. Stages e tirocini non sono contratti di lavoro e danno fra i 400 e gli 800 euro mese. Sono usati per più assunzioni e mascherano così rapporti di lavoro che sono puro sfruttamento. Un giovane laureato in legge o economia che entra in uno studio professionale per avviarsi alla carriera o è di famiglia ricca o fa la fame (la differenza fra il suo rimborso e il reddito del suo “capo” supera il rapporto esistente fra salario operaio e reddito del management dell’industria). Non parliamo di tutele perché per queste fasce di lavoratori, anche se apparentemente tutti in piena regola, non ce ne sono.

Allora dobbiamo prestare grande attenzione alla nuova composizione sociale e alle prime reazioni di questa ripresa. I giovani hanno pagato durante la pandemia un prezzo alto. C’è una spinta liberatoria che oggi fa sì che rifiutino trattamenti che non li ripagano dei sacrifici fatti. Si scontrano per lo più con imprenditori impegnati nei settori che più hanno pagato per le chiusure di questi mesi. Si scontra la rabbia che cresce in due gruppi sociali che si aspettano un riconoscimento a breve.

È un sentiero stretto in cui procedere a decisioni rapide per dare riconoscimento alle competenze dei giovani, alleggerire il costo del lavoro e il peso che tasse e burocrazia hanno sulle piccole e medie imprese che sono il tessuto fondamentale della nostra economia.

Meriterebbe più attenzione questo tema del continuo dibattito sul blocco dei licenziamenti che pesa anche come blocco del mercato del lavoro contro il lavoro giovanile. 

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