La nota in italiano dell’Ocse che ha accompagnato l’uscita del rapporto annuale “Education at a glance” si conclude riportando la percentuale di Neet fra i 25 e i 29 anni rivelandoci che a fine 2021 in Italia raggiungevano il 34,6%. La notizia ha fatto immediatamente il giro delle redazioni di tutti i giornali e di tutti i siti web. Il dato appare così stupefacente che ci ha indotto a riflettere bene su come è composto e come si è arrivati a una tale conclusione. Ed è così che ci siamo convinti che è un dato che non presenta nulla di eccezionale, soprattutto per la particolarità del mercato del lavoro italiano.
Procediamo con ordine: non tutti i Neet sono dei fannulloni. Dobbiamo distinguere all’interno di questo gruppo la percentuale di quelli che non avendo un lavoro lo stanno però cercando da quanti invece non hanno lavoro e non lo cercano proprio risultando pertanto inattivi. Sempre su base dati Ocse vediamo che gli inattivi in questa classe di età sono il 23,1%, mentre quelli che pur non lavorando stanno cercando lavoro sono l’11,5%. Abbiamo poi un 12% di giovani che stanno ancora studiando, un 4,8% di occupati che studiano e un buon 48,6% di occupati che lavorano e non studiano.
Se sommiamo le percentuali di occupati che lavorano con quanti lavorano e studiano otteniamo un tasso di occupazione per questa fascia di età del 53,4%. Aggiungendo i disoccupati il tasso di attività è pari al 64,9%.
Come noto, il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto fra disoccupati e attivi. Pertanto il tasso di disoccupazione per i giovani fra i 25 ed i 29 anni risulta del 17,7%. Ora il 12% di persone che a quella età sta ancora studiando, tecnicamente è fatto di inattivi, ma certo non possiamo considerarli fannulloni (a meno di avere un pesante disprezzo per l’istruzione…). Se conseguentemente li sommiamo agli attivi già individuati (occupati più disoccupati) abbiamo che i non fannulloni sono il 76,9% e il 23,1% è la quota di chi non lavora, non cerca lavoro e non studia. E tralasciamo che in questa statistica non vengono conteggiati coloro che frequentano corsi di formazione regionale immaginando che siano pochi dopo i 25 anni.
Il perché di tutto questo riconteggio è presto detto. Il tasso di inattività per tutta la popolazione in età lavorativa (fra i 20 e i 64 anni) è in Italia nello stesso 2021 del 31,7%. Perché non pesino troppo le fasce giovanili prendiamo la fascia di età 35-44 anni. Il tasso di inattività era al 20,1%. Solo tre punti meno della fascia giovanile, ma anche senza le note difficoltà di inserimento che si registrano nel nostro Bel Paese nel passaggio scuola-lavoro.
Insomma, verso le età giovanili si usa ormai uno stigma: sono fannulloni perché in troppi non studiano né lavorano. In realtà, in Italia è il tasso di occupazione e il tasso di attività di tutta la popolazione che merita politiche dedicate.
Con le ultime rilevazioni il tasso di occupazione è tornato al 60% a livello nazionale. Sommando anche i disoccupati arriviamo con un tasso di attività che raggiunge il tasso di occupazione che fa da obiettivo alle politiche europee del lavoro, il 70%. Quindi il 30% degli italiani in età lavorativa non partecipa al mercato del lavoro. Verrebbe da dire che fra i giovani almeno un certo numero studia, ma dopo i trent’anni sono quasi nulli i numeri diI quanti intraprendono un percorso di studio.
Lo studio Ocse presentava però dati che spiegano almeno in parte i numeri italiani: ricordiamoci che lo studio presentato è riferito alla partecipazione ai percorsi educativi e al contributo che educazione e formazione danno al mercato del lavoro.
Appare nettamente nel confronto fra Paesi che più persone arrivano adun livello di educazione terziario e più vi sono un lavoro di qualità e salari più alti. Noi scontiamo ancora un forte ritardo. Ancora pochi sono quelli che hanno una formazione terziaria. Il ritardo dello sviluppo degli ITS e del canale della formazione duale lo paghiamo con un mercato e del lavoro che presenta forti squilibri rispetto a quelli dei Paesi a noi più simili per livello di sviluppo.
Fra i Neet della fascia 25-29 anni ben il 60% ha frequentato solo la scuola dell’obbligo. Se aggiungiamo a questo dato gli squilibri territoriali che caratterizzano il nostro mercato del lavoro appare chiaro perché lavoro grigio e Reddito di cittadinanza sono concentrati in alcune aree territoriali dove servirebbero politiche di maggiore formazione e soprattutto di crescita economica.
Ma a quanto detto finora il rapporto Ocse aggiunge che non sempre nel nostro Paese basta studiare. In troppi casi anche con laurea magistrale i lavori risultano sottopagati e contribuiscono a creare diffidenza rispetto all’investimento in formazione. L’esempio cui fa riferimento il rapporto riguarda l’attività di insegnamento. Da noi gli stipendi di chi insegna sono più bassi di quelli degli altri Paesi europei con cui siamo in competizione diretta. Ma oltre al confronto con l’estero sono mediamente del 30% inferiori a quelli dei laureati impegnati in altre attività.
Se vogliamo tirare le somme di quanto ci arriva dal rapporto Ocse non basta continuare ad accanirsi sulla questione giovanile accentuando i temi con la categoria dei Neet. Occorrono scelte politiche che saldino assieme riforme dei percorsi educativi e formativi perché la transizione scuola-lavoro diventi una passerella facilitante e non una parete da scalare. Servono poi politiche per la formazione continua per prosciugare i troppi che arrivano al lavoro con un bagaglio formativo che non raggiunge il minimo d’obbligo. A questo impegno deve aggiungersi una politica di crescita della produttività di sistema che porti a una crescita salariale e ad aumentare la domanda di lavoro per chi nella formazione ha investito di più.
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