L’integrazione tra i percorsi formativi e quelli lavorativi viene ritenuto, a ragion veduta, il principale pilastro delle politiche del lavoro, quello finalizzato a forgiare la qualità delle risorse umane con effetti duraturi nel mercato del lavoro. Un ambito di interventi che ha registrato un’importante evoluzione a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo, in coincidenza con l’accelerazione delle evoluzioni tecnologiche e organizzative delle imprese.
Un’evoluzione che associa l’esigenza di migliorare le competenze delle risorse umane per gestire le innovazioni, aumentare la loro occupabilità e rendere sostenibile la crescente mobilità del lavoro. Tutto ciò ha indotto a rafforzare anche i sistemi di alternanza tra scuola e lavoro, i cosiddetti sistemi duali, strutturando percorsi integrati di apprendimento e sperimentazione delle conoscenze teoriche, che hanno moltiplicato le forme di intervento e di collaborazione tra sistemi precedentemente distinti, e orientati da previsioni generiche e di lungo periodo per i fabbisogni del mercato del lavoro.
Oltre a rispondere con più efficacia alle esigenze del sistema produttivo, i percorsi integrati di formazione e lavoro svolgono un’importante funzione educativa e valoriale per un corretto orientamento al lavoro, per migliorare le qualità umane e relazionali (le cosiddette soft skills) che sono diventate nel tempo un requisito fondamentale per la valutazione delle caratteristiche umane e professionali dei candidati. Nell’economia globale le reti di collaborazione tra le istituzioni formative e i sistemi produttivi sono diventate un perno delle nuove politiche industriali, anche per l’attrazione degli investimenti.
Il ritardo nazionale sulla materia era stato evidenziato nel Libro Bianco sul mercato del lavoro italiano, redatto nel 2001 dal gruppo coordinato dal compianto Prof. Marco Biagi, utilizzando le comparazioni con quanto stava avvenendo negli altri Paesi europei per sollecitare un diverso approccio delle politiche del lavoro, storicamente concentrate sulla tutela dei rapporti di lavoro, per integrarle con quelle mirate a incrementare l’occupabilità delle risorse umane. Un obiettivo parzialmente ripreso nella legge n. 276/2003 con la riforma dell’istituto dell’apprendistato per renderlo utilizzabile per tre finalità: il completamento dell’obbligo scolastico, la professionalizzazione nei percorsi post scolastici e per le professionalità elevate; e da diversi interventi mirati a potenziare le esperienze degli stage e dei tirocini nel corso dei cicli scolastici e universitari (tirocini curriculari) e dopo l’acquisizione dei titoli di studio (tirocini extra curriculari).
Ma il tema nel suo complesso non è mai stato assunto a livello di sistema. Ogni tentativo di proporlo come tale è stato osteggiato da studenti e docenti, con tanto di manifestazioni periodiche, perché assimilato a una sorta di mercificazione dei percorsi di studio, e come ulteriore veicolo per lo sfruttamento dei giovani. Al di là dei pronunciamenti di rito, non è stato considerato una priorità da parte delle associazioni imprenditoriali e sindacali, nemmeno preso in considerazione per l’attività dei numerosi fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali per la formazione continua. Lo spezzettamento delle competenze tra lo Stato e le Regioni in materia di politiche del lavoro e della formazione ha prodotto una frastagliata varietà di modelli di intervento territoriali che rendono persino difficile comprendere cosa realmente stia avvenendo sulla materia.
Questa difficoltà l’abbiamo riscontrata nel cercare di reperire le informazioni sui livelli di utilizzo degli strumenti duali (apprendistato, stage, tirocini). Il sistema delle Comunicazioni obbligatorie sulle assunzioni del ministero del Lavoro segnala che i tirocini extra curriculari nel 2019 sono stati circa 350 mila, equamente distribuiti tra uomini e donne, e 390 mila i rapporti di apprendistato tutt’ora in corso. Per quelli curriculari non esistono dati aggiornati. Una specifica ricerca dell’associazione Repubblica degli stagisti ne stima poco meno di 200 mila. Non esistono numeri ufficiali per i giovani che frequentano le scuole professionali e statali.
Il fenomeno dei tirocini viene segnalato in crescita, soprattutto negli anni recenti, per il ruolo svolto dal programma Garanzia Giovani avviato nel 2014. I rapporti di monitoraggio di questo programma segnalano che i tirocini hanno conseguito il risultato di triplicare le probabilità di occupazione dei partecipanti rispetto agli altri giovani che cercano lavoro. Un risultato analogo viene segnalato dall’indagine annuale di AlmaLaurea sull’inserimento lavorativo dei laureati che hanno effettuato stage e tirocini durante il percorso di studi (il 56% su un campione di 290mila), che risultano occupati per il 72% entro il primo anno successivo alla laurea rispetto al dato medio del 64%.
La coerenza tra i percorsi di studio e le caratteristiche professionali di questi tirocini non è particolarmente significativa, conseguenza logica dell’assenza di sistemi strutturati di relazione e orientamento con il mondo produttivo. Non mancano le esperienze di eccellenza di alcuni Politecnici Universitari e nell’insieme degli Istituti Tecnici di Stato (ITS) che registrano tassi di occupazione prossimi al 90% nel primo anno successivo all’acquisizione dei diplomi, ma che riguardano, purtroppo, poche decine di migliaia di giovani.
Il vero fallimento di un’intera stagione di riforme delle politiche del lavoro lo riscontriamo nei numeri del mercato del lavoro. Quello record europeo dei giovani Neet che non studiano e non lavorano (2,2 milioni), i tassi di occupazione dei giovani under 34 che si sono progressivamente allontanati dalle medie europee con riflessi drammatici su quelli di genere e di territorio. Le difficoltà delle imprese a reperire il personale, circa un terzo dei profili richiesti, ma che aumenta oltre il 40% per quelle orientate ad assumere i giovani per motivazioni che vanno dalla carenza di competenze, o di esperienze svolte, all’indisponibilità a svolgere lavori manuali.
Il mancato ricambio generazionale pesa come un macigno sulla sostenibilità delle trasformazioni tecnologiche e organizzative che sono attese nei prossimi anni. Eppure, nonostante le rilevanti risorse rese disponibili con il programma Next Generation Eu e con i fondi ordinari della nuova Agenda Europea, il tema viene ripreso in modo dispersivo nell’assemblaggio dei diversi progetti del Pnrr che fanno capo a una pluralità di amministrazioni centrali e regionali, senza obiettivi e strumenti volti a recuperare, almeno in parte, questi ritardi.
Il recupero diventa probabile se assunto come obiettivo di sistema, a partire dall’obbligo di integrare nei percorsi scolastici e universitari la frequentazione di stage e tirocini, offrendo supporti di orientamento e di gestione di questi percorsi alle Istituzioni scolastiche e formative, coinvolgendo i servizi per l’impiego pubblici e privati, i sistemi produttivi locali e le parti sociali nella programmazione e gestione di questi interventi.
L’apprendistato professionalizzante dovrebbe diventare lo strumento principale per l’inserimento lavorativo dei giovani e con modalità e tempi di formazione semplificata, anche per i Neet meno giovani. Lo strumento dovrebbe diventare oggetto di un accordo interconfederale tra le associazioni degli imprenditori e dei lavoratori, con modelli condivisi sul territorio nazionale anche per la certificazione della formazione coinvolgendo le regioni e gli enti bilaterali per la formazione promossi dalle parti sociali.
L’idea di favorire un ricambio generazionale attraverso la promozione di singoli progetti, l’introduzione di quote obbligatorie per le assunzioni negli appalti pubblici o, peggio ancora, con l’estensione di sussidi al reddito, rappresenta l’ultimo pacchetto avvelenato frutto dell’approccio culturale responsabile dei nostri ritardi strutturali. L’elenco delle cose che non devono essere fatte, se non altro per evitare di sprecare risorse.
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