C’è un gran discutere su come sta cambiando il lavoro. L’impatto del calo demografico sulle generazioni che stanno arrivando ora sul mercato del lavoro sommandosi al mismatching di competenze ha determinato un primo impatto di scarsità dell’offerta rispetto alle esigenze del sistema economico. Dagli uffici del personale giungono, però, anche osservazioni che portano a pensare che è in atto un cambiamento nel rapporto che le persone hanno con il lavoro.
Vi è certamente un primo impatto di carattere economico. Un’offerta di lavoro scarsa può consentire a queste generazioni di strappare aumenti salariali maggiori. Molte delle dimissioni volontarie di questo periodo sono motivate dalla ricerca di condizioni economiche migliori. All’aumento delle dimissioni si somma poi un atteggiamento verso le condizioni di lavoro e per una migliore conciliazione con la propria vita familiare che pongono alle imprese la necessità di rivedere la propria organizzazione del lavoro.
Si tratta certamente di una conseguenza dell’esperienza dello smart working imposta dalla pandemia, ma è diventato qualcosa in più. Il rientro in ufficio ha riguardato una quota di lavoratori maggiore di quanto avvenuto negli Usa. Ma la domanda di flessibilità dell’organizzazione dei tempi e dei luoghi è diventata una caratteristica generalizzata. Almeno per i lavori che permettono questa scelta. La diminuzione dell’orario si è affacciata invece per quelle professioni che non consentono di organizzarsi con il lavoro agile.
Le imprese, a partire dalle più grandi, hanno reagito alle nuove domande che vengono dai dipendenti avviando miglioramenti negli ambienti di lavoro, allargando le esperienze di welfare aziendale, riorganizzando orari e possibilità di lavoro agile. Iniziative certamente utili e che cercano di affrontare i temi nuovi che si pongono. Ma la provocazione vera che viene sottolineata da più parti è che i giovani al colloquio di assunzione sono determinati nel dettare loro le condizioni a cui accetteranno il posto o continueranno a cercarlo con altri interlocutori.
Se facciamo riferimento alle indagini svolte su questa novità possiamo cogliere aspetti interessanti. C’è sempre la condizione salariale come una delle variabili importanti. Questa si salda con un rifiuto crescente per i reiterati contratti di stage e tirocinio che non sono veri contratti di lavoro e sono usati per mascherare bassi salari e lavoro grigio. Ma le condizioni che assumono una valenza fondamentale per la scelta dell’impresa in cui andare a lavorare sono soprattutto quelle delle condizioni di conciliazione vita-lavoro, della condivisione dei valori aziendali e della responsabilità sociale esercitata dall’impresa e, al primo posto, viene la trasparenza con cui l’impresa presenta un percorso di crescita professionale condiviso con il lavoratore.
Se prendiamo sul serio queste domande che i giovani pongono al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro dobbiamo chiederci a quale desiderio corrispondono e quali possono essere le risposte in grado di accogliere la domanda di dare nuovo senso al lavoro. Migliorare l’ambiente di lavoro, la riorganizzazione con un po’ di flessibilità in più restano risposte formali davanti alle domande di senso.
Non si tratta nemmeno di questioni che possono trovare una risposta nelle proposte legislative sul salario minimo o nell’ennesima discussione sul superamento dell’articolo 18 o sulla nuova contrattualistica.
Precarietà, lavoro nero e supersfruttamento che caratterizzano alcuni settori produttivi diventeranno sempre meno tollerati dalla coscienza diffusa proprio perché il lavoro oggi chiede un nuovo riconoscimento sociale.
Individualismo e relativismo hanno distrutto molti legami che formavano una trama attraverso cui la persona si ritrovava attraverso la rete di relazioni in un contesto collettivo. Erano le rappresentanze sociali e sindacali a fornire l’ambito in cui sviluppare i legami solidaristici che nascevano sul lavoro. La nuova organizzazione del lavoro crea il nuovo ambiente, ma non può da sola rispondere alle domande di fondo che vengono dai giovani lavoratori.
Oggi dalle organizzazioni sindacali arrivano due tipi di risposta. La prima è quella che è stata rappresentata dalla piazza della Cgil di settimana scorsa. Una piattaforma rivendicativa che andava ben oltre il confine della trattativa sindacale ed era più simile a una piattaforma politica: non va bene nulla, vogliamo cambiare tutto. La rincorsa a slogan sempre più estremi come tentativo di riannodare cordoni di rappresentanza con i nuovi lavoratori può riuscire a motivare piccole minoranze, ma non risponde alla domanda di senso e al desiderio che si nasconde dentro il disagio giovanile di fronte al lavoro.
Quella che emerge è una domanda di partecipazione che sfida l’assetto del rapporto impresa/lavoro così come lo conosciamo oggi. Ciò che appare dalle preferenze espresse nei colloqui è la disponibilità a uno scambio che prevede reciproche responsabilità. Più flessibilità e conciliazione dei tempi di vita e disponibilità a condividere crescita di competenze e carriera. Si esce, però, dal sistema per cui c’è un decisore sconosciuto che dall’alto detta tempi, carriera e scelte che incidono sulla vita dei lavoratori. Ovviamente l’attenzione economica non è scomparsa, ma si tratta di vedere assieme come dividere il plus che si contribuisce a creare.
È per questa ragione che sostengo che la proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dalla Cisl per la partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali: è più corrispondente a quanto serve per aprire una nuova stagione della vita delle rappresentanze sindacali. Questo fine settimana la proposta sarà sottoscrivibile in molte piazze d’Italia. La riuscita di questa mobilitazione diffusa sarà la migliore cartina di tornasole per valutare come la ricerca di nuove strade si incontra con la possibilità di rilanciare reti di partecipazione collettiva al disegno del nostro lavoro futuro.
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