L’Italia è un Paese difficile per i giovani. Non nel periodo estivo dove offre ogni possibile soluzione per fare delle vacanze di grande soddisfazione, ma come Paese del lavoro non ha le stesse capacità di risposta. La disoccupazione giovanile resta più alta di quella dei Paesi europei confrontabili con il nostro per sviluppo economico, il numero di giovani che non studiano né lavorano è da record europeo e anche come tasso di formazione siamo lontani dai partner europei per numero di giovani che hanno una formazione di livello terziario.
Questa situazione è figlia di una disattenzione alle politiche per la crescita del capitale umano che viene da lontano. Percorsi scolastici troppo lunghi e assenza di un percorso di formazione professionale parallelo e con passerelle di scambio hanno concorso a creare quel profondo mismatching fra competenze richieste dal sistema produttivo e formazione giovanile.
Il tasso di inattività giovanile (fra i 25 e i 34 anni) tocca da noi il 25%. È di 12 punti in meno in Germania, in Francia e anche in Spagna. Di questo milione e mezzo circa di inattivi oltre il 65% è composto donne e la maggioranza risiede nel Mezzogiorno. Differenza di genere e differenze territoriali sono ancora un elemento di forte penalizzazione fra i giovani italiani.
Investire in percorsi di studio è determinante. Più competenze vengono acquisite, più facile è trovare lavoro e che sia corrispondente al percorso di studi seguito. Ma non sempre il nostro sistema economico è in grado di trattenere molti giovani che trovano all’estero percorsi di lavoro e formazione più gratificanti.
Troppo spesso, invece di affrontare il tema di come aumentare gli investimenti in capitale umano e come fare un sistema produttivo capace di rispondere ai desideri di crescita dei giovani talenti, si colpevolizzano i comportamenti giovanili. È diventata una moda del sistema di informazione prendere dati relativi a movimenti del mercato del lavoro e senza porsi domande per capire cause o significato di quanto viene rilevato sparare titoli e battezzare i nuovi comportamenti come innovazioni con significato sociologico immediato.
Dopo i due anni segnati dagli stop and go dei lockdown le statistiche hanno registrato molti movimenti sul mercato del lavoro. Dopo due anni in cui fra attività sospese e periodi di blocco totale la mobilità sul mercato del lavoro era stata praticamente nulla, era abbastanza prevedibile che si sarebbe registrata una maggiore mobilità con il ritorno alla normalità. Normalità che per il nostro Paese significa circa 10 milioni di spostamenti lavorativi annui. Con i cambiamenti intervenuti in molte attività il numero è stato un po’ superiore. Ciò è bastato per dire che assistevamo alle grandi dimissioni. Un termine che più che indicare un cambiamento fra un impiego e un altro induce a pensare a un’uscita dal mercato del lavoro. Quando poi era associato a comportamenti di giovani lavoratori era l’ennesima scoperta della lo scarsa propensione al lavoro o al rifiuto di lavori troppo pesanti o che impattavano con il desiderio di tempi di lavoro più corti.
Questo giudizio verso le scelte dei giovani lavoratori era già emerso con l’uso del termine dei cervelli in fuga utilizzato per bollare quanti sono andati all’estero per arricchire le proprie competenze, perché hanno trovato attività più gratificanti o semplicemente perché per le loro competenze la disponibilità di occupazione in Italia è più scarsa. Dall’eroica emigrazione delle generazioni precedenti questa è invece definita una generazione in fuga.
Ultima scoperta sui nuovi comportamenti del lavoro giovanile è il fenomeno del dedicarsi a fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro.
Messe assieme le categorie di giudizio utilizzate ci troveremmo di fronte a una generazione che sta cercandole tutte per scappare dal lavoro. Quindi né studio, né lavoro per scelta, ricerca di un reddito garantito qualsiasi e meno impegno possibile nella formazione.
La realtà appare, però, completamente diversa. L’investimento in formazione scolastica e professionale fra i giovani è in continua ascesa. Siamo ancora lontani dai traguardi europei, ma in costante aumento anche nelle discipline tecnico-scientifiche dove avevamo un notevole ritardo. Anche i percorsi formativi scelti dalle giovani donne stanno spostandosi verso corsi con un tasso di successo occupazionale più alto.
Ciò che appare emergere è che date le caratteristiche del nostro sistema produttivo una generazione con una formazione migliore e con competenze più alte sta ponendo al sistema delle imprese una nuova sfida. Le questioni legate a come conciliare meglio tempi di lavoro e scelte di vita, come assicurare percorsi di formazione continui che assicurino di mantenere la propria occupabilità non sono problemi estranei all’organizzazione del lavoro dell’impresa dove scelgo di andare a lavorare. Vengono perfino prima della richiesta del giusto salario.
Ancora oggi, però, il nostro sistema di imprese, in parte a causa delle dimensioni limitate, non ha impostato una riflessione su questi temi adattando le sue scelte organizzative inglobando i cambiamenti necessari. Abbiamo ancora settori dove si gioca solo su leve salariali, e spesso al ribasso, e manca una politica associativa o dei territori che sopperisca alla dimensione delle imprese per assicurare servizi adeguati alle nuove esigenze.
Sicuramente è prioritaria la creazione di un sistema di apprendistato duale che favorisca la nascita di un sistema di formazione professionale che inglobi gli Its e aiuti a chiudere il mismatching formativo esistente.
Teniamo conto che puntare sulla crescita del capitale umano per dare impulso allo sviluppo del Paese è indispensabile. Un capitale umano sempre più formato pone, però, al sistema produttivo nuove sfide per un’organizzazione che valorizzi tutte le competenze e non faccia sentire nessuno come sottoutilizzato o marginalizzato dopo l’impegno messo per valorizzare i propri talenti.
È una domanda di partecipazione alla vita delle imprese che dovrà trovare nuove risposte.
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