Instabile e precario: questa l’immagine del lavoro dei giovani in questa Italia all’inizio del Terzo millennio. Con la percentuale più alta d’Europa di disoccupazione giovanile, con un sensibile disallineamento tra la formazione scolastica e le esigenze delle imprese, con la difficoltà di veder attuate politiche attive capaci di offrire prospettive rassicuranti.



E con in più una lettura retorica e superficiale che vede i giovani bamboccioni, choosy, altrettanto pigri quanto iperconnessi: comunque a disagio con una realtà in cui gli anziani, che si ritengono diversamente giovani, non sembrano lasciare spazio e possibilità di carriera.

Eppure i giovani non solo dovrebbero essere, ma sono i nativi digitali, coloro che non hanno bisogno di adattarsi alla quarta rivoluzione industriale perché vivono già con naturale normalità il mondo 4.0.



Queste due diverse dimensioni hanno comunque entrambe qualche elemento di verità anche se visti sul campo i giovani appaiono molto più protagonisti del loro futuro di quanto possa apparire a prima vista. È quanto emerge dal lavoro di ricerca condotto da Veronica Ronchi, docente di Economia e di Storia delle relazioni economiche internazionali presso l’Università degli Studi di a Milano, e raccontato nel “La dimensione giusta – Giovani lavoratori nella PMI italiana” (ed. goWare, pagg. 120, € 12,99).

Tante storie, ognuna con il proprio carattere, unite dal filo conduttore di una presenza sociale che chiede un attento sviluppo della personalità. Un viaggio tra antropologia e sociologia per delineare anche le particolari caratteristiche della realtà economica italiana caratterizzata dalle piccole e medie imprese.



Come scrive Giulio Sapelli nell’introduzione, “il libro offre anche una disanima attenta, completa e indipendente di dati che servono bene a inquadrare la specificità ontologica della piccola e artigiana impresa, così come quella, tanto diversa, dell’impresa media, ultime resistenze attive del patrimonio italico di civilizzazione industriale e dei servizi alle imprese”.

Vengono sottolineate così le grandi potenzialità dei giovani, ma anche il disagio di dover accettare spesso lavori non compatibili con le professionalità acquisite nella scuola o verso le quali si sentono portati. I talenti rischiano di essere dispersi anche per la mancanza non solo di formazione adeguata, ma anche delle informazioni di base che potrebbero fornire ai giovani una guida per incamminarsi nel mondo del lavoro.

Il tasso di disoccupazione giovanile, oltre il 30%, non costituisce quindi solo un problema personale, ma è sempre di più un problema collettivo di una società che perde di vista la dimensione dell’inclusione e che nega l’opportunità di far partecipare i giovani in maniera più piena.

La ricerca, condotta grazie a K Finance, in occasione del ventennale, e PKF, è stata realizzata su un campione nazionale di imprenditori e giovani lavoratori under 30. E fa emergere comunque un mondo giovanile dinamico e capace di adattarsi alle trasformazioni del mercato, un mondo in cui non mancano i segni di speranza per una crescita sociale complessiva.